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Rwanda: ucciso il carnefice di Nyamata

Si chiamava Léopord Twagirayezu. A Vita aveva rilasciato una testimonianza agghiacciante sui massacri da lui compiuti durante il genocidio del 1994. Era pronto a denunciare i suoi complici nei tribuna

di Joshua Massarenti

Si chiamava Léopord Twagirayezu ed era pronto a ?svuotare il sacco?. Pronto a denunciare in una seduta del tribunale ?tradizionale? Gacaca prevista per il prossimo mese di novembre le decine e decine di rwandesi hutu che assieme a lui si sono macchiati dei terribili massacri di Nyamata. Eravamo nel 1994, a circa una trentina di kilometri della capitale del Rwanda (Kigali), quando tra l?11 aprile e il 14 maggio, furono sterminati a colpi di machete, granate e kalaschnikov, dalla mattina alla sera, circa 50.000 rwandesi tutsi.

Vita aveva incontrato Léopord Twagirayezu nell?aprile scorso duramte il periodo commemorativo che celebrava le 800.000 vittime del genocidio più rapido della storia dell?umnaità. La sua testimonianza era stata riportata nel dossier speciale di Vita dedicato al Rwanda poco meno di un mese fa. E a Vita, aveva giurato che nessuno lo avrebbe fatto tacere in questo suo processo di redenzione morale nei confronti di se stesso e delle vittime.

Ma Léopord Twagirayezu, 33 anni e un centinaio di tutsi sulla coscienza, non ce la farà a ?svuotare il suo sacco?. E? stato ucciso sabato 25 settembre, attorno alle 19h00, sulle sue colline di Maranyundo. La notizia è giunta in redazione solo oggi, in seguito a una telefonata del tutto casuale fatta a un cittadino di Nyamata. Secondo G. G., Twagirayezu ?è stato ucciso da gente che avrebbe fatto qualsiasi cosa per farlo zittire?. Ma chi? ?Nessun dubbio, si tratta di hutu di Nyamata coinvolti nei massacri del ?94 e che attualmente circolano nella più totale libertà tra le vie del nostro comune?.

A Vita, Twagirayezu aveva affermato che ?alcune persone hanno fatto di tutto affinché non parli alla mia Gacaca: mi hanno minacciato di morte, hanno cercato di corrompermi offrendomi soldi e mucche in cambio del mio silenzio?. Ma lui no. ?Io ho detto loro che non me starò zitto e racconterò tutto quello che ho visto in quei terribili giorni?.

Secondo G. G., ?Twagirayezu è stato tradito dalla sua ex fidanzata, rimasta coinvolta nell?inchiesta che sinora ha visto l?arresto di 7 persone?. Seconda la ricostruzione di G. G., ?Twagirayezu stava riaccompagnando la sua ex fidanzata a casa sua. Giunto alle soglie della casa, alcune persone sono venute fuori del nulla sparando all?impazzata?. Tre colpi di pistola, due al petto e uno in testa li sono stati fatali. ?L?inchiesta continua? assicura a Vita G. G., ? e probabilemente altre persone verranno arrestate?.

Il delitto commesso nei confronti di un ex carnefice pronto a dire le sue verità ai famosi tribunali rwandesi della Gacaca, mettono in luce la complessità del processo di riconciliazione nel Rwanda della fase post genocidio. Altresì, se è vero che Twagirayezu è stato ucciso da altri presunti ex carnefici o complici del genocidio di Nyamata nel ?94, allora emerge le tensioni sociali che caratterizzano i rapporti non solo tra sopravvissuti (tutsi e hutu moderati) e ex carnefici (hutu estremisti), ma anche tra coloro che si sono coinvolti direttamente o indirettamente nei masssacri risalenti a dieci anni fa. A dimostrazione del fatto che la ricerca di verità e giustizia rimane in Rwanda un percorso estremamente complesso.

Qui sotto, abbiamo voluto riproporvi la testimonianza che Léopord Twagirayezu ha rilasciato a Vita nell?aprile 2004 a Nyamata:

A tu per tu con un carnefice del genocidio

TWAGIRAYEZU, UN UOMO COMUNE A NYAMATA

Un?infanzia segnata dalla miseria. Nel 1994, la svolta con un genocidio che gli consente un?insperata scalata sociale, ma un centinaio di vittime sulla coscienza. Dopo 7 anni passati in carcere, oggi Leopold Twagirayezu è confrontato al suo passato da uomo comune, in quella sanguinosa primavera del 1994

Leopord Twagirayezu ha 33 anni e vive a Nyamata, un borgo rurale situato ad una trentina di km ad est di Kigali. Nel 1994, di anni ne aveva 23. Durante il genocidio, avrebbe massacrato a colpi di macete almeno un centinaio di persone. Arrestato nel 1996, è stato accusato di crimini di genocidio e crimini contro l?umanità, ma per aver ammesso le sue colpe e collaborato assiduamente con le autorità giudiziarie, la sua condanna è stata fissata nel 2001 a ?soli? 7 anni di carcere. Liberato nel dicembre 2003, è tornato a Nyamata tra gli insulti e le minacce dei suoi vicini. Ha tentato una volta il suicidio. Nel mese di giugno 2004, comparirà come testimone davanti al tribunale tradizionale Gacaca.

Un?infanzia nel segno della miseria

Mi chiamo Leopord Twagirayezu. Ho 33 anni e sono nato qui a Nyamata, sulla collina di Maranyundo, a Muyange. Della mia infanzia, ho soli brutti ricordi legati alla miseria in cui vivevo assieme ai miei genitori, mio fratello e le mie quattro sorelle. Ragion per la quale ho fatto solo due anni di scuola elementare che ho abbandonato a 11 anni per andare a tenere le mucche. Del passato ricordo anche che con i Tutsi non ho mai avuto particolari problemi. Vivevamo insieme sulle stesse colline, mangiavamo e giocavamo insieme, così come c?erano matrimoni misti.

Una pianificazione su scala comunale

Le cose hanno iniziato ad andare male nel 1990 con l?attacco del FPR [Fronte Patriottico Rwandese, un gruppo armato composto da rifugiati Tutsi ed oppositori Hutu] e la nascita dei partiti politici. Nel 1992, c?è stato un meeting tenuto qui a Nyamata dal partito unico [MRND] in cui si diceva che i Tutsi erano molto nefasti per il popolo maggioritario [Hutu, ndr] e che andavano rispediti in Etiopia. Eravamo almeno 500 persone, e tutti erano convinti su quanto sostenuto dalle autorità. Tra i leader presenti, ricordo il sindaco Gatanazi, un vice prefetto e il prefetto di Kigali Rurale François Karera proveniente da Kigali.

Il 7 aprile 1994 il sindaco della città ci ha dato la notizia che l?aereo del nostro presidente era stata abbatuto e che i Tutsi erano pronti a conquistare la capitale. Fino al 9 aprile, giorno in cui a Nyamata i massacri sono iniziati, c?è stato un susseguirsi di riunioni tenute dal borgomastro per organizzare la nostra difesa e uccidere i Tutsi. Le riunioni si tenevano a tutti livelli amministrativi, dal comune alla cellula. A riunione conclusa, i responsabili di cellule ricevevano degli ordini da trasmettere ai responsabili dei massacri. Io ero un miliziano interahamwe vice responsabile dei massacri nel settore di Maranyundo. Sotto i miei ordini vi erano 250 persone.

Il genocidio di Nyamata

Il 10 aprile, Gratien Kabirigi, un generale delle forze armate, ci ha incitato a recarci da un commerciante che si chiamava Twagirayezu, il quale ha distribuito tutti i macete che aveva in stock. Ogni uomo, ogni ragazzo era tenuto ad andarci per iniziare il lavoro. E? il termine che si impiegava per definire il massacro. Onestamente, non so dire esattamente quanti Tutsi ho ucciso. Di sicuro molti. Farò l?esempio dell?attacco alla chiesa di Nyamata dove tra 5000 e 7000 persone si erano rifugiate convinte che, come nel 1959, avrebbero avuto vita salva. Il 13 aprile, assieme ai militari abbiamo circondato la chiesa. I militari giungevano in bus e in camion dal vicino campo militare di Gako. Ci davano una mano perché il numero di gendarmi presenti a Nyamata er insufficiente rispetto al numero di Tutsi che dovevamo uccidere. Quindi i militari hanno iniziato a lanciare granate. L?ordine dato agli interahamwe era quello di catturare i Tutsi che tentavano la fuga e di uccidere i sopravissuti rimasti dentro la chiesa. Quindi siamo entrati nella chiesa per tagliare i sopravissuti con il macete. C?era una confusione incredibile, sangue ovunque. Così, non posso contare il numero di persone che ho ucciso.

La mia prima vittima

Ricordo invece la mia prima vittima perché il primo essere umano che si uccide non si scorda mai. Era un mio vicino di casa. Si chiamava Runigi e si era rifugiato da un altro vicino il quale è venuto da noi a denunciare il fatto. In due siamo andati a cercarlo. L?ho tagliato io per primo con un colpo di macete sulla schiena perché ormai ero convinto che il Tutsi era un nemico molto pericoloso. Ecco perché ho preferito non guardarlo in faccia. Quello che stava con me lo ha colpito alla testa. E? morto sul colpo. Intanto, nella chiesa, i massacri sono proseguiti fino al 21 aprile. La radio ci incitava tutti i giorni alla caccia dei Tutsi e secondo le autorità, uccidendoli non commettevi nessun peccato, non era un male. Io vedevo che non c?era nessun problema nell?uccidere i Tutsi. Anche tra i miei stessi familiari. Quasi tutta la mia famiglia partecipava al genocidio, quindi nessuno poteva rimproverarmi qualcosa.

Una scalata sociale fulminea

Secondo gli ordini dettati dai responsabili, i massacri iniziavano alle 7 del mattino fino alle 5 del pomeriggio. Al termine della giornata, ci offrivano da bere e da mangiare. Ricordo che ogni sera, ci si riuniva per bere una birra e si sceglieva chi fra di noi era stato il più valoroso. Spesso ero io il prescelto, fino a diventare un esempio per gli altri. No, non avevo paura di uccidere. Eppoi il sindaco ci diceva che il più bravo avrebbe ottenuto un posto di lavoro al comune e che nel frattempo ci si poteva impossessare dei beni delle sue vittime. Ricordo che ai tusti uccisi,abbiamo rubato di tutto: mucche, vestiti, cibo, persino le loro tettoie. In tutto, io ho preso otto casse di birra vuote, 50 kg di fagioli, due mucche e dei vestiti che ho distribuito ai miei familiari. Oggi, non riesco a spiegarmi una simile violenza. La radio non ci ha mai detto di uccidere in quel modo. Io credo che ognuno uccideva in funzione della cattiveria che si portava dentro di sé. Anche le donne uccidevano. Ne conosco una che si chiama Bazizane. Ha ucciso due donne e quattro bambini.

La fuga

Ad un certo punto, abbiamo appreso che a N?Tarama, c?erano dei Tutsi armati che riuscivano a mettere in difficoltà i nsotri. Quindi le autorità ci hanno chiesto di dare una mano a quelli di N?Tarama. Siamo andati lì il 24 aprile e lì abbiamo incontrato degli interahamwe giunti direttamente da Kigali. Il nostro lavoro consisteva nel rincorrere le persone che fuggivano nelle paludi mentre i militari li sparavano addosso. Si lavorava dalle 7 alle 20. Io ho ucciso solo una persona. Anche perché quando siamo arrivati là, la stragrande maggioranza dei Tutsi era già stata uccisa. I massacri si sono fermati il 28 aprile, giorno in cuio è arrivato l?FPR. Le autorità ci hanno detto di scappare. Con la mia famiglia sono fuggito a Goma. Durante la fuga, siamo passati a Gitarama dove si uccideva per lo più gli Hutu traditori. Io lì non ho ucciso nessuno perché non era la mia area di competenza.

I primi rimorsi, le ammissioni di colpa e la libertà

I primi rimorsi li ho provati nei campi profughi in Zaire, e poi nel carcere di Rilima, dov?ero detenuto dopo il mio arresto nel 1996. Facevo parecchi incubi. Ho persino temuto di diventare pazzo fino al giorno in cui ho deciso di sputare tutta la verità. Purtroppo molti detenuti non la pensano come me, convinti che il ?lavoro? vada finito. Oggi sono in pace con me stesso. Con i sopravissuti non ho problemi. Temo invece gli Hutu che non vogliono che dica la verità alla Gacaca. Alcuni mi minacciano, altri provano a corrompermi offrendomi dei soldi oppure delle mucche. Ma io ho sempre rifiutato. In giugno, sono pronto a denunciarne 225 che bene o male hanno partecipato al genocidio. Dopo la Gacaca, voglio costruire il mio paese e vivere in pace con i miei vicini.

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