Intervista a Daniele Novara

“Mollami”: come i nostri figli adolescenti possono sopravvivere a noi

È dedicato ai genitori di figli adolescenti il nuovo libro del pedagogista Daniele Novara, significativamente intitolato "Mollami". «Vorrei contrastare questa tendenza colpevolizzante verso i ragazzi e i genitori, ribadendo che essere adolescente è meraviglioso e che ci vuole uno sguardo benevolo su di loro, che non li consideri patologici»

di Sara De Carli

«Al mio gruppo di adolescenti, con cui mettemmo in salvo il nostro tempo»: si apre con questa dedica Mollami, il nuovo libro di Daniele Novara dedicato – come è facile intuire dal titolo – all’adolescenza (edizioni Bur Rizzoli). O meglio, ai genitori di figli adolescenti, quelli a cui spesso l’editoria specializzata e non strizza l’occhio con titoli che parlano di “sopravvivenza”. La prospettiva di Novara come al solito spiazza i luoghi comuni. Se proprio qualcuno ha bisogno di consigli per sopravvivere a qualcun altro, mi vien da dire dopo averlo letto, non sono i genitori ma i figli. Il sottotitolo infatti recita così: «Educare i figli adolescenti e trovare la giusta distanza per farli crescere».

Mollami, un titolo inequivocabile. In adolescenza il desiderio di staccarsi dai genitori è scontato, una cosa vecchia come il mondo. E quindi? È vero che per ogni genitore l’adolescenza del proprio figlio è come se fosse “la prima volta del mondo”, ma… è solo questo o c’è qualcosa di diverso, di specifico dei nostri giorni, nei rapporti tra genitori e figli adolescenti che porta all’esigenza di un nuovo libro sul tema?

Ovviamente c’è qualcosa di diverso, perché siamo in presenza di una generazione di genitori che, con un tradimento genealogico enorme, ha deciso di mettersi il più possibile alla pari con i figli, in una condizione caratterizzata dalla ricerca di affettività, intimità, confidenza, quasi diventando amici e compagni dei figli, perdendo deliberatamente e consapevolmente il proprio ruolo – anche gerarchico – di genitore.

E questo cambia le regole del gioco? Perché?

Perché l’adolescente non desidera e non ha bisogno di questo tipo di genitore. Desidera e ha bisogno di un genitore stabile, che sta al suo posto, di una madre che appaia “vecchia” e che lasci spazio alla figlia sulla scena, di un genitore con cui entrare in conflitto e che dia regole da trasgredire, perché essere adolescente è quella cosa lì, trasgredire per uccidere la tua infanzia. Il tipo di genitore che invece oggi va per la maggiore non consente al figlio di fare questa operazione fondamentale, perché è come se lo tenesse sempre nella beatitudine infantile. Uno dei leit motiv dei genitori di questa generazione che definirei della “mutazione antropologica narcisistica” è quella di voler avere buoni rapporti con i figli adolescenti: se non li hanno ne soffrono, la ritengono una cosa insostenibile. Ma a ben vedere questo non solo è impossibile: peggio, è la tipica soluzione che rafforza il problema. Nel momento in cui tu invece di fare la tua parte educativa ti poni sul versante della gradevolezza delle relazioni, basate sul benessere reciproco e su una certa compiacenza, ti vai a incamminare su un sentiero non dico impervio ma impraticabile.

Daniele Novara all’evento per i 30 anni di VITA, ottobre 2024 (foto di Stefano Pedrelli)

C’è un passo del libro in cui racconta di una ragazzina che si rifiuta di uscire con la madre e le dice “ma come sei vestita, sembri una troia”. “E allora vestiti da mamma”, ribatte poi la ragazza ai rimproveri della madre. Mi pare che qui c’è un tema di conflitto e di ruoli, ma anche di rispetto. 

Guardi, quella frase è vera al 100%. È paradossale che i ragazzi invece di poter fare la loro vita spesso e volentieri devono concentrarsi sulla necessità di opporsi all’invadenza dei “genitori adolescenziali”, che sono una vera tragedia per i figli perché così diventa molto impervio per i ragazzi prendersi il loro posto nel mondo. I territori del conflitto sono vari perché qualsiasi ambito è buono per permettere al figlio di marcare la propria individualità nuova: possono essere i vestiti, la scuola, lo sport, il ragazzo o la ragazza, la compagnia…

Uno dei leit motiv dei genitori di oggi è di voler avere buoni rapporti con i figli adolescenti: se non li hanno ne soffrono, la ritengono una cosa insostenibile. Ma questo non solo è impossibile: peggio, è la soluzione che rafforza il problema

Come reggere la necessità evolutiva del conflitto con un figlio adolescente, se poi però ad ogni piè sospinto a noi genitori è stata inculcata l’angoscia che i nostri figli poi cadano in depressione, in ansia patologica, che si taglino, che si suicidino?

Cominciamo col dire che non si suicidano e che dobbiamo imparare a non prendere alla lettera quello che gli adolescenti dicono. Come genitori vigileremo, ma la soluzione per evitare questi comportamenti non è evitare il conflitto, anzi. È proprio perché hanno un deficit di conflittualità e non hanno imparato a gestire il conflitto quando erano piccoli che ora in adolescenza ogni cosa sembra insostenibile. L’adolescenza tira fuori le magagne e le carenze educative, le enfatizza, le porta alle estreme conseguenze. Per questo trovo discutibile l’immagine dell’adolescenza come seconda nascita, come se fosse un reset dei primi anni. No, l’adolescenza mostra gli effetti di quel che hai seminato o non seminato prima, dal punto di vista educativo. Quello che si manifesta in adolescenza è la conseguenza di scelte educative fatte nell’infanzia, che si sono radicate. 

Vuol dire che “les jeux sont faits”? Pesante per un genitore…

Ma no, si può sempre cambiare, nonostante tutto. Il cervello dell’adolescente è al massimo della sua plasticità e tante trasformazioni sono possibili. Si può non solo rimediare agli errori educativi ma anche liberare i ragazzi da cattive pratiche infantili. Giusto oggi una ragazzina che seguo è tornata a scuola dopo 50 giorni… Però mi preme ricordare ai genitori che le scelte educative che fanno non possono non lasciare il segno.

«Gli adolescenti non sono pazienti psichiatrici», si legge nel libro. E più avanti: «la figura del genitore psicoteraputa dei suoi figli si è diffusa a macchia d’olio». Ripartiamo da qui.

I genitori oggi si presentano da me in studio dicendomi che il figlio ha l’ansia, che ha le crisi di panico, che non ha autostima… Tutte parole che hanno significati molto precisi. Invece di parlare con un linguaggio educativo, da genitori, ormai si mettono a creare scenari clinici: dopodiché in quello scenario per un genitore risulta difficile muoversi, perché se lo scenario è quello clinico, l’azione da mettere in scena è il trattamento. Infatti ci sono madri che si comportano come se fossero l’analista delle figlie. Come direbbe Wittgenstein, il linguaggio fa la realtà. Se usiamo i codici sanitari, ecco che proiettiamo sui figli l’ombra della patologia, l’idea che mio figlio ha qualcosa che non va. E non è così. Il ruolo del genitore è quello di educare e le decisioni educative sono tantissime: lo spazio fuori casa, lo spazio scolastico, l’organizzazione dell’estate, la sessualità dei figli, l’uso dei soldi. Il tema che il genitore deve porsi è “che cosa voglio che mio figlio impari”, non “che disturbo ha mio figlio”. Gli psicologi oggi stanno prendendo il posto del pedagogisti, con risultati equivoci e deludenti. 

Ha dedicato il libro al suo gruppo di adolescenti, di quando lei era giovane. Chiude il libro con una bellissima lettera agli adolescenti e con un intenso elogio del gruppo di adolescenti. Però scrive anche che oggi la preoccupazione di madri e padri riguardo ai gruppi che frequentano i figli è altissima: alcuni sembrano preferire addirittura un figlio isolato a uno inserito nella propria compagnia. Indubbiamente – scrive – con tutti i rischi e le magagne, il gruppo è sempre migliore. Sempre? Anche quando il gruppo è un gruppo “a rischio”? 

La sua domanda chiama sulla scena un’ulteriore figura genitoriale tipica di oggi: non solo il genitore psicologo e psicoterapeuta, ma anche il genitore con competenze criminologiche, che è in grado di analizzare la natura del gruppo che frequenta suo figlio… Francamente mi sembra un delirio. Qualsiasi adulto, se analizza i gruppi che lui ha frequentato da adolescente, si rende conto che quei ragazzi erano imperfetti ma gli hanno consentito di liberarsi dall’infanzia e di non farlo da solo. Un adolescemte isolato, alle prese con le paturnie dell’adolescenza, è un disastro. Quindi sì, non ho dubbi, qualsiasi gruppo imperfetto è molto meglio dell’isolamento.

Qualsiasi adulto, se analizza i gruppi che lui ha frequentato da adolescente, si rende conto che quei ragazzi erano imperfetti ma gli hanno consentito di liberarsi dall’infanzia e di non farlo da solo. Sì, non ho dubbi, qualsiasi gruppo imperfetto è molto meglio dell’isolamento

Uno dei punti fermi del suo ragionamento è il fatto che la madre in adolescenza deve fare un passo indietro e lasciare la prima linea al padre. Un gioco di squadra centrato sul paterno. 

La figura del padre è cruciale nel senso che rappresenta una possibilità di gestire meglio l’allontanamento e il bisogno di libertà tipico degli adolescenti. Il padre può farlo con minori componenti emotive rispetto alla madre perché la madre – questo viene molto sottovalutato – ha portato dentro di sé il figlio e quel tempo ha segnato entrambi, si sono create osmosi neurocellulari che sul piano emotivo si mantengono anche in adolescenza e rendono difficile facilitare il distacco. La figura del padre non ha tutte quelle implicazioni emotive che sul piano biologico rendono la mamma più suscettibile alle intemperanze adolescenziali, a tutto quello che poi la trascina dentro il vortice emotivo dell’accudimento.


Nel libro dedica ampio spazio alla necessità di comunicare bene tra genitori e figli adolescenti, con le giuste tecniche. «Il termine corretto nel rapporto genitore-figlio è comunicazione, non dialogo», dice. E parla del silenzio attivo, delle urla, del letteralismo, della “tecnica del gatto” e di quella “del paletto”, della “comunicazione di servizio”. Cosa fare e cosa non fare? 

C’è da anni il mito del dialogo, ma mentre il dialogo insiste sul confronto dialettico tra posizioni diverse, enfatizzando le divergenze, in un certo senso fine a se stesso, la comunicazione fin dal fatto che porta nella radice il “cum” insiste sulla volontà di mettere in comune qualcosa per trovare un accordo concreto, un punto di incontro. I figli nella relazione con i genitori hanno bisogno di comunicare, non di fare vertenze filosofiche. Non serve lo “spiegone”, né le confidenze tra pari, né le urla. Comunicare vuol dire concentrarsi su alcuni obiettivi specifici che in genere sono di natura pratica e operativa e che permettono di comprendersi. La comunicazione è un atto di reciprocità, assume la reciprocità come base. Nel dialogo ci parliamo ma ognuno cerca di rafforzare la propria posizione, nella comunicazione invece – tanto più nella comunicazione di servizio – ci parliamo perché vogliamo raggiungere uno scopo comune.

Che cosa si augura accada con questo libro?

Che ci sia una svolta. L’ho pensato come libro di servizio, molte idee qui espresse non sono nuove ma erano già contenute nei miei precedenti libri: mettendo insieme il tutto però vorrei contrastare questa tendenza colpevolizzante verso i ragazzi e verso i genitori, ribadendo che essere adolescente è meraviglioso e che ci vuole uno sguardo benevolo su di loro, che favorisca lo sviluppo dei loro apprendimenti e non li consideri dei soggetti patologici. I vostri figli vi ringrazieranno.

In apertura, foto Brook Cagle su Unsplash. La foto di Daniele Novare è di Stefano Pedrelli per VITA

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.