Famiglia
Parenti serpenti? Rompere bene si può. Ecco come
Tagliare i rapporti con genitori, figli, fratelli e sorelle è un fenomeno diffuso. Abbattere lo stigma verso chi è in questa condizione aiuta a comprendere come risolvere in modo maturo questioni rilevanti. Perché una separazione sana è possibile. Ne abbiamo parlato con Silvia Mazzoni della Sapienza di Roma e socia fondatrice della Società italiana di mediazione familiare
“Con te ho chiuso”. È un movimento crescente che rivendica la propria scelta di tagliare i ponti con un membro della propria famiglia d’origine e cerca di abbattere lo stigma che ancora esiste e che spinge a non parlarne, per paura del giudizio altrui, perdendo così anche la possibilità di un riconoscimento pubblico della propria sofferenza e di un conforto. La rottura ostile è una modalità tipica ma disfunzionale di gestione dei conflitti interpersonali con la quale si cerca di risolvere questioni rilevanti “tagliando” fisicamente ed emotivamente i rapporti con genitori, figli, fratelli o altri membri della famiglia. Eppure, rompere bene è possibile. Taciuto dai più ma al contempo così diffuso da non poter essere invisibile, quello delle rotture familiari è un problema «nascosto in bella vista», come lo ha definito nel suo «Famiglie strappate» (Feltrinelli) Karl Pillemer, sociologo della famiglia direttore del Bronfenbrenner Center for translational research alla Weill Cornell Medicine a New York, che stima in 67 milioni gli americani in questa situazione, un quarto del totale.
Di questo fenomeno ancora tabù, in una società in cui poco ancora lo è, e diffuso anche nel nostro paese, tradizionalmente uno dei più familisti d’Europa, abbiamo parlato con Silvia Mazzoni, psicologa e psicoterapeuta, docente del Dipartimento di psicologia dinamica, clinica e salute della Sapienza Università di Roma, socia fondatrice della Società italiana di mediazione familiare e docente dell’Accademia di psicoterapia della famiglia. La sua grande esperienza clinica come terapeuta della famiglia insegna che, anche quando sembra impossibile, c’è modo di arrivare a una evoluzione della relazione e a una separazione sana, nella misura in cui si riconosce l’individualità, propria e altrui.
Chiuderla con qualcuno di famiglia è un modo di ribellarsi all’idealizzazione della famiglia e a imposizioni tossiche o è una strategia di sopravvivenza emotiva, riflesso di una società che cambia?
La conflittualità all’interno delle famiglie è universale pur al variare delle sue caratteristiche: il non ti parlo più, non ti voglio più vedere c’è sempre stato. Oggi, l’istituzione della famiglia non ha più quella protezione che le veniva dalla cultura religiosa ma soprattutto c’è una diffusa tendenza a dare un maggior peso alle esigenze della persona. Così, l’individualismo ha spesso la meglio sul senso di affiliazione alla famiglia, ma anche alla squadra e, allargando progressivamente il raggio, a tutti i gruppi con cui l’essere umano fisiologicamente si identifica e di cui difende gli interessi. C’è anche una generale diminuzione del senso di collettività e di comunità e di prevalere dei desideri individualistici, in questo contesto rientra l’aumento delle patologie narcisistiche.
Se una relazione non mi gratifica e mi ferisce, nulla mi impedisce di troncarla. È così?
Spesso manca la motivazione a salvare il legame, a chiarirsi e a risolvere, per arrivare a evolvere o a separarsi riconoscendo allo stesso tempo il valore del legame e la necessità di percorrere strade diverse.
Qui nasce la rottura o, per usare un vostro termine tecnico, i cut off, i «tagli emotivi»?
Se consideriamo odio e amore come elementi miscelabili, le rotture nascono da un prevalere del primo. Quando la relazione è fatta di “tu non mi capisci, io non ti posso capire”, essa genera rabbia costante che può trasformarsi in odio. Qui si intende quell’odio che vuole annientare l’altro e tagliare i ponti è proprio quello che serve a farlo sparire dalla propria vita, come insegna lo psichiatra austriaco Otto Kernberg, che distingue varie forme di odio, come quella di chi preferisce invece rendere impossibile la vita all’altro o prenderne il comando.
Con la rottura l’altro non lo si fa sparire, è così?
Al contrario. Con un taglio emotivo ci si porta dentro, in modo molto ingombrante, quella stessa persona da cui ci siamo allontanati in modo ostile, sia essa un genitore, un figlio o un partner. Essa si ingigantisce rispetto a quando il legame ancora c’era, per quanto conflittuale. Per questo, è molto importante lavorare sulla gestione dei rapporti in famiglia, per le ricadute negative che una rottura può avere anche sugli altri ambiti della vita privata e professionale.
Spesso chi si sente ferito rimane ancorato alla propria narrazione degli eventi passati. Come procedere a una ricomposizione del rapporto?
Si parla tecnicamente di riparazione. Nelle relazioni intime, l’errore nella comprensione reciproca è qualcosa di fisiologico. Quante volte diciamo a un caro amico “C’è stato un equivoco!”. Il rapporto interpersonale è questo ciclo continuo di interpretazioni e incomprensioni rispetto al quale la nostra arte è di riparare quello a cui teniamo e di comprendere il perché dell’incomprensione. Che non significa affatto scusarsi o rimangiarsi la parola detta o l’azione compiuta, se per noi è quello che andava fatto. Significa comprendere l’altro, fargli sapere che abbiamo capito il suo dolore e anche il suo punto di vista, senza per questo abbracciarlo. Questo è possibile nella misura un cui la relazione è più importante della nostra auto-affermazione.
Lasciarsi il passato alle spalle è dunque possibile?
In queste situazioni, ripeto, non si tratta di cercare una riconciliazione ma di agire bene in modo non traumatico, puntando a realizzare una separazione basata su una differenziazione consapevole. Quando un legame crea sofferenza, ad esempio di fronte a un padre che non si riesce a comprendere e da cui non ci si sente compresi, un figlio potrà ben separarsene, evolvendo e capendo che è rimasto molto poco da condividere. Continuerà a volergli anche bene, magari lo frequenterà ogni tanto, pur nella consapevolezza delle difficoltà e delle differenze reciproche. Questo è un modo saggio e maturo di agire.
La rabbia si può estinguere?
Non è facile in un contesto sociale in cui l’ostilità è manifestata e tollerata in moltissimi campi. Vorrei sottolineare che quello che conta per la riparazione è l’essere capiti dagli altri, non convincerli ad abbracciare il proprio punto di vista. Nell’impossibilità di una separazione-differenziazione matura, il continuare a parlarsi porta inevitabilmente a ribadire le proprie ragioni, che riaprono sempre le stesse ferite che hanno causato la rottura e riaccendono la rabbia.
Spesso la volontà di rompere un legame viene da un figlio piccolo. Che fare?
Una rottura ostile con una persona la fa diventare persino più importante di quello che sarebbe se la separazione fosse guidata da quella differenziazione consapevole che dicevamo. Per questo, anche di fronte a genitori molto problematici, in cui si ammette la necessità di una distanza col figlio, comunque si tenta di favorire la riparazione e di creare il contesto per il riconoscimento da parte del genitore del dolore del figlio. Per il suo bene. Lo stesso si fa nel caso delle separazioni, dove va sempre indagato se il rifiuto a vedere un genitore è indotto da un adulto della coppia o è un’autentica percezione di negatività da parte del bambino.
Quando conta il carattere nel saper andare avanti?
Ragioni caratteriali e fattori ambientali concorrono. Ci sono delle persone che hanno delle vulnerabilità nell’organizzazione della propria personalità per cui non raggiungono mai quell’intelligenza interpersonale che permette loro di arrabbiarsi, di rompere e poi di riparare. Lo dico sempre: la rabbia è la forza dei fragili. Chi tende all’irrigidimento, al ritiro dagli altri e al vedere solo sé stesso, tutte vulnerabilità che non gli consentono di andare avanti, avrà una forte tendenza alla rottura. Tematizzare le rotture di questo tipo [come cercano di fare sempre più i diretti interessati stanchi del tabù e dello stigma, ndr] può aiutare a creare consapevolezza e strumenti per guardare avanti.
Foto di Tim Gouw su Unsplash
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