Teatro

Sul palcoscenico l’Alzheimer è il pretesto che racconta l’umano

di Antonietta Nembri

Dario De Luca, attore, regista e autore di “Il Vangelo secondo Antonio” porta in scena al Teatro Oscar di Milano un’opera che fa riflettere sulla condizione di vita di una persona con demenza. Il protagonista, brillante sacerdote di una piccola parrocchia calabrese, scivola pian piano in un suo mondo dove anche la fede si sublima in un rapporto molto singolare con il Cristo in croce. E come tutte le cose vere mescola sorriso e tristezza

Sono passati quasi dieci anni da quando Dario De Luca ha pensato di scrivere un testo teatrale per riflettere sulla malattia di Alzheimer. Parliamo de “Il Vangelo secondo Antonio”, un’opera che ha come protagonista la figura di don Antonio, un uomo brillante, parroco di una piccola comunità calabrese che si ammala di Alzheimer.

Lo vediamo però, nei dialoghi con la sorella che funge da perpetua e il giovane diacono scivolare pian piano in una nebbia in cui perde i riferimenti della sua vita. Salvo uno: un nuovo rapporto, strano e singolare con il Cristo crocifisso che porterà avanti fino alla fine

Dario De Luca

Scena dopo scena lo spettatore è condotto per mano verso l’interiorità del protagonista, seguendo il percorso della malattia, tra momenti di involontaria comicità e profonde riflessioni sul senso religioso dei protagonisti.

Lo spettacolo a Milano

L’opera si De Luca ha vinto il Premio per la migliore regia al Premio per il Teatro e la Drammaturgia Tragos ed è stata segnalata al Premio Fersen nel 2017. Ma perché scegliere di raccontare la malattia sul palcoscenico di un teatro? Come si è arrivati a una scenografia così essenziale? Lo abbiamo chiesto a Dario De Luca, autore, regista e protagonista della pièce alla vigilia della messa in scena milanese al Teatro Oscar (via Lattanzio a Milano) dove “Il Vangelo secondo Antonio” rimane in cartellone dal 30 gennaio al 2 febbraio. 

La genesi della pièce

«Lo spettacolo nasce nel 2016 ed è andato in scena fino al 2020 quando siamo stati fermati dal Covid. Ora lo abbiamo ripreso, il teatro Oscar ce l’ha chiesto e abbiamo colto la palla al balzo per rinfrescarlo, perché c’è ancora tanto da raccontare sull’Alzheimer… e, da quando si è saputo che lo spettacolo è tornato in repertorio, ce lo stanno chiedendo perché il tema è di quelli importanti», premette De Luca.
Il regista e autore ha al suo attivo anche un’altra opera che lui inserisce come in un “dittico del dolore”: Lo Psicopompo, ovvero il traghettatore una pièce dedicata al fine vita del 2019. «Un testo più laico» chiosa De Luca.

Tornando a “Il Vangelo secondo don Antonio” Ci sono stati dei cambiamenti, quindi?

Il primo cambiamento è stato apportato subito dopo il debutto: la scenografia era molto realistica. Però non mi trovavo a mio agio. È vero che il racconto nasceva ambientato in un piccolo centro della Calabria, ma in tournée abbiamo ricostruito le scene per renderle più astratte, minimali, abbiamo cambiato la profondità. Lo spettacolo è rimasto lo stesso, ma cinque anni dopo l’ultima messa in scena siamo diversi noi, il Covid ci ha cambiato. Sono successe tante cose e quindi abbiamo dovuto apportare dei cambiamenti, come nel finale… l’abbiamo liberato, lasciato un po’ più sospeso.

In scena Matilde Piana (Dina la sorella di don Antonio) Dario De Luca (nei panni del sacerdote) – foto Manuela Giusto

Ma da dove è nata l’idea di uno spettacolo incentrato sull’Alzheimer? C’è un’esperienza personale o altro?

In realtà tutto nasce da un convegno che mi ha fatto entrare nel mondo di questa malattia. In occasione di questo evento mi sono imbattuto nel libro di una psicoterapeuta geriatrica che lavora con i malati di Alzheimer e che aveva scritto dei piccoli racconti sui suoi pazienti, raccogliendo dei piccoli aneddoti. Come attore ero stato chiamato per una lettura di alcuni brani. Questo libro mi ha incuriosito. Ammetto che allora non conoscevo l’Alzheimer. Però tutto questo mi ha colpito e ho iniziato a interessarmi. Ho passato del tempo in un centro con dei malati che non riconoscevano i loro parenti. Ma quello che volevo fare non era un semplice excursus della malattia, volevo affrontare anche altri temi, volevo riflettere sul senso religioso, ma anche sull’impegno sociale. E infatti il mio protagonista è impegnato nell’accoglienza dei migranti, nella gestione dei beni confiscati, una persona attiva fino all’insorgere della demenza…

Chi c’è dietro il don Antonio dello spettacolo, il sacerdote della pièce che si ammala di Alzheimer?

In scena da sx Matilde Piana, Dario De Luca e Davide Fasano – foto Angelo Maggio

Lui è il personaggio che perde la memoria, che mi permette di non fare un semplice excursus sulla demenza. Ho discusso con tanti parroci della mia terra, c’era molto da ragionare perché volevo portare in scena un prete che alla fine non riconosce più nessuno: la sorella che gli fa da perpetua e il diacono che l’aiuta in parrocchia. Non riconosce neppure Cristo per il quale però sente una certa empatia, al punto che lo accudisce. E questo è un particolare che mi è stato suggerito dalle esperienze fatte nei centri per malati di Alzheimer.

In che senso?

Molto spesso le persone con demenza chiamano “mamma” la persona che le accudisce. Chi si prende cura, chi accudisce è la mamma, qualunque sia il suo rapporto di parentela.  È come se ci fosse una sacca d’amore, una memoria remota, indelebile

Nell’opera ci sono momenti involontariamente comici, ci sono piccoli particolari ed episodi, come non riconoscere il telefono o la scena in cui don Antonio si mette a mangiare le ostie, invece che distribuirle ai fedeli…

Beh, quella non me la sono inventata. Mentre stavo scrivendo il copione mi raccontarono di un prete di Bigonci che si era ammalato di Alzheimer e la sua comunità se ne era accorta quando nella messa della domenica di Pasqua si era mangiato tutte le ostie… Non l’ho mai conosciuto, ma mi sono ispirato.

Come è stato accolto lo spettacolo? Ci sono stati rapporti con le associazioni?

Devo dire che negli anni si è creato un buon rapporto: lo spettacolo è stato molto amato sia dalle persone che hanno un malato in casa sia dalle associazioni. Anche alcuni medici lo hanno apprezzato. In effetti, prima del Covid con lo spettacolo ho partecipato a due Alzheimer Fest, due edizioni differenti, proprio perché c’era voglia di farlo vedere. In Calabria gli studi sulla malattia sono molto ricchi, ma non c’è una consistente rete di sostegno alle famiglie.

Lo spettacolo che torna in scena ora quali cambiamenti registra?

Innanzitutto ho dieci anni di regia in più sulle spalle. Ma quello che vorrei passasse è un messaggio di speranza, che chi viene a vedere lo spettacolo si commuova. Mi auguro di essere riuscito a trasmettere serenità senza appesantimenti per quello ho fatto delle modifiche sul finale, ma sono rimasti i simboli del personaggio…

In una delle ultime scene quando ormai don Antonio è completamente perso nella sua mente. Avvolge il corpo del Cristo (la statua che lui ha tolto dalla croce diverse scene prima) in un lenzuolo, quasi un telo sindonico per avvolgere la statua. Un’attività che lo rasserena per cui sorride e può riposare in pace, si legge nel copione. Il diacono commenta «Forse Dio prende la spugna e cancella quello che è scritto sulla lavagna per scriverci il proprio nome». È nel vecchio copione sono le ultime parole… cosa è cambiato?

Lungo tutto il percorso dello spettacolo c’è una riflessione sul senso religioso, che comunque rimane, come sulla misericordia che va al di là del cristianesimo. Una riflessione che non vuole essere retorica ed è proprio riferita ai “portatori di croce” che poi sono tutti i caregiver ai quali in fondo lo spettacolo è dedicato.

Nell’immagine in apertura una delle scene finali con don Antonio abbracciato alla statua del Cristo staccato dalla croce, foto Manuela Giusto – tutte le foto da Ufficio stampa

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