Un incidente durante una gara in moto. E la vita che cambia per sempre, a 28 anni. «Praticavo la disciplina dell’enduro e durante un campionato europeo, a seguito di una caduta, ho riportato la frattura della colonna vertebrale. Era il mese di giugno del 1989. Dopo questo evento traumatico ho voluto modificare radicalmente la mia vita, anche lavorativa». A parlare è Gianni Conte, 64 anni appena compiuti, paraplegico e fondatore dell’azienda che costruisce Triride, un propulsore elettrico per carrozzine, da lui brevettato. «È faticoso, ma lo spirito con cui ho affrontato la mia vita da imprenditore è sempre stato quello sportivo».
Conte, in che modo ha voluto cambiare la sua vita?
Prima dell’incidente facevo parte della Polizia di Stato, ero nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro. La mia formazione era tecnico-scientifica, ero anche designato al reparto della Polizia scientifica di Milano. Avrei potuto proseguire quella carriera, perché una volta finite le competizioni (stavo quasi per smettere, quella era una delle mie ultime gare), sarei rientrato in servizio con la Polizia scientifica. Invece ho preferito reinventarmi completamente. Con una disabilità così importante non mi sentivo più motivato a fare quel tipo di lavoro. Un paio di anni dopo l’incidente, insieme ad altri due ragazzi disabili come me, ho avviato la mia prima attività imprenditoriale a Milano.
Come le è scattata la “scintilla” dell’imprenditoria?
Mi sono trovato in questa nuova condizione e, oltre ad un periodo piuttosto lungo di degenza, ho passato altri cinque mesi in ospedale per riabilitarmi. Quando sono tornato a casa, in questa nuova dimensione, ho cominciato a praticare un po’ di sport. Avvicinandomi alle discipline paraolimpiche del nuoto, ho iniziato a conoscere un mondo sconosciuto, con tanti stimoli, tante cose da conoscere e da fare. Ho cominciato a lavorare molto su me stesso per migliorare la qualità della mia vita, per dare un senso a tutto.
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Come ha iniziato a fare l’imprenditore?
Con questi due miei amici notammo che, in Italia, c’era una situazione abbastanza penalizzante, per quanto riguardava le carrozzine. Cominciammo ad importare e distribuire quelle tecnologicamente più all’avanguardia. Sono andato avanti fino al 2000 circa con quell’attività. Poi per me c’è stato un periodo di stop perché sono diventato papà, ho avuto una bambina e mi sono dedicato al nuovo ruolo di padre, tanto desiderato. Però il mondo del lavoro mi ha sempre fortemente richiamato, ci sono tornato in maniera molto attiva dopo aver inventato un dispositivo di trazione per le carrozzine: Triride.
Perché ha inventato questo dispositivo?
È un prodotto che ho pensato innanzitutto per risolvere mie esigenze personali. Non avevo pensato minimamente di farne una produzione o una commercializzazione. Mi trovavo spesso in situazioni dove non solo c’erano delle barriere architettoniche, ma anche delle difficoltà di mobilità: sanpietrini, pavimentazioni irregolari, salite rapide, impervie, discese, ostacoli dovuti al tessuto urbano dei paesi piuttosto che delle città. Mi ero trasferito nelle Marche, mi sono trovato in situazioni complesse nei borghi storici, medievali. Spesso c’erano dei percorsi in cui dovevo chiedere l’aiuto di qualcuno che mi desse una spinta. Insomma, mi rendevo conto che la carrozzina poneva dei limiti alla mia mobilità.
Ho trovato la mia strada: dare un senso alla disabilità facendo del bene a più persone possibili
Come ha costruito Triride?
Stimolato dal mio vissuto, dalla mia formazione di tipo tecnico-scientifico e dalle mie capacità di ex pilota di enduro ho iniziato a lavorare, passando dall’idea alla realizzazione. Sapevo collaudare le moto, avevo un’officina molto attrezzata nel garage di casa. Un giorno, non trovando in commercio quello che avevo in mente, ho pensato di realizzare, secondo le mie necessità, un propulsore da attaccare alla carrozzina, che nel momento del bisogno si potesse agganciare e sganciare, da trasportare facilmente. Erano in commercio delle nuove batterie al litio, quindi c’era il vantaggio di poter avere un dispositivo elettrico compatto, piccolino, leggero.
Lei lo ha inventato per se stesso…
Sì, ero contento e soddisfatto di questa creazione, ma non avevo pensato potesse essere un ausilio comodo per tutti, che facilita la vita anche a chi sta accanto alla persona disabile: in certi percorsi, un accompagnatore per spingere una carrozzina deve essere fisicamente ben dotato e faticare. Le persone intorno a me apprezzavano questi vantaggi e cominciavano a chiedermi di realizzarlo per loro. Ho fatto altri prototipi e le richieste si moltiplicavano. Nel 2013 abbiamo fondato l’azienda Triride, che prende il nome dal prodotto, lo ha inventato mia figlia: da “ride”, cavalcare e tre, il numero delle ruote. La produzione l’ho realizzata con l’aiuto della mia inseparabile socia Marta Nunez.
La sua invenzione è diventata un prodotto commercializzato in Italia e all’estero. Qual è la sua più grande soddisfazione?
Il mio “carburante” quotidiano è vedere di aver creato un prodotto utile. L’azienda è stata fondata nel 2013, ormai sono 12 anni. Prima di fondare l’azienda, i due anni precedenti già lavoravo intensamente per le certificazioni, le omologazioni, il fascicolo tecnico e tutto ciò che mi ha portato ad essere un imprenditore. Lavoro ininterrottamente sei giorni su sette, qualche volta anche sette su sette. L’energia la trovo nel fatto che ogni giorno traggo delle soddisfazioni profonde dal mio lavoro, che sono stimolanti ed emozionanti, non sento nessuna fatica. Ci lusinga molto il fatto che il nostro dispositivo sia venduto in tutto il mondo: dal Canada alla Nuova Zelanda, da Israele a tutta Europa, fino al Giappone e in Corea del Sud.
Com’è cresciuta la sua azienda?
Il primo anno i pezzi prodotti erano diventati già centinaia. All’inizio eravamo due persone a lavorare, alla fine del primo anno eravamo già sei. Oggi, tra interni ed esterni, siamo più di 40 persone. La crescita imprevista e imprevedibile dell’azienda ci ha costretti ad una grande flessibilità, per trovare locali più grandi, assumere altro personale. È stato tutto un work in progress, navigando a vista. Nel 2015 partecipammo alla nostra prima fiera internazionale, a Düsseldorff, lì ci affacciammo sul mercato internazionale. Siamo stati premiati in diverse fiere, per “il prodotto innovativo dell’anno”. Una delle cose della quale mi sono subito preoccupato è stata quella di iscrivere il nostro prodotto nell’Albo dei dispositivi medici, affinché potesse essere rimborsato dal Sistema sanitario nazionale, almeno in parte. Mi ero reso conto che per molti sarebbe stato un acquisto proibitivo e io volevo fermamente che fosse accessibile a tutti.
All’inizio eravamo due persone a lavorare, alla fine del primo anno eravamo già sei. Oggi, tra interni ed esterni, siamo più di 40 persone
Ha avuto qualche difficoltà nella sua vita da imprenditore?
Essere imprenditore in un settore in cui io sono anche un utilizzatore – realizzare prodotti che vengono usati da persone disabili, come sono io – mi mette in una posizione di vantaggio. Se avessi avuto un’impresa in cui la mia condizione di disabilità non avesse influito in niente, probabilmente sarebbe stata molto più ardua. Qualcuno potrebbe dire che mi piace “vincere facile”. Vediamola così: bisogna saper prendere il meglio dalle situazioni che possono sembrare fortemente limitanti. È quello che dico a tutti i miei “colleghi” di disabilità. Io ho trovato la mia strada: dare un senso alla mia disabilità, facendo del bene a più persone possibili. Ma le difficoltà ci sono.
Quali?
Nella quotidianità, nelle azioni più semplici. Anche soltanto andare dal notaio a fare l’atto costitutivo della società è stato complicato: c’erano cinque gradini prima di arrivare all’ascensore e noi tre soci in carrozzina abbiamo dovuto farci sollevare di peso dal portiere. Per fare qualsiasi cosa, ci si deve scontrare con una serie di ostacoli, anche solo fisici. Poi in Italia ci sono molti ostacoli anche burocratici, spesso nessun tipo di incentivo e di aiuto. Quando si avvia un’azienda o un’attività, c’è tutta una serie di problematiche alle quali si sommano quelle nella sfera della mobilità.
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È faticoso, ma lo spirito con cui ho affrontato la mia vita da imprenditore è sempre stato quello sportivo. Io salgo e scendo dalla macchina da solo, tirandomi su la carrozzina anche 20 volte al giorno per andare dai clienti, dai rivenditori. C’è anche un impegno fisico, oltre che mentale. L’attività di imprenditore, da parte di una persona disabile, comporta il fatto che ogni mattina ti svegli sapendo di avere davanti tutta una serie di sfide, anche imprevedibili. Se uno la prende un po’ con questo spirito, sembra di praticare una disciplina sportiva.
L’attività di imprenditore, per una persona disabile, comporta il fatto che ogni mattina ti svegli sapendo di avere davanti tutta una serie di sfide, anche imprevedibili. Se uno la prende con questo spirito, sembra di praticare una disciplina sportiva
Poi un imprenditore, se la sua azienda è agli inizi, deve avere vari ruoli: dall’operaio all’impiegato, dal commercialista all’agente di commercio. E intanto deve promuovere se stesso, prendere contatti, organizzare trasferte. Questo comporta, se è una persona disabile, che deve anche essere molto disciplinato perché deve curarsi, essere sempre in buone condizioni, mantenere una certa efficienza e (diciamo) forza fisica: deve tenere le potenzialità residue allenate perché è molto vulnerabile.
Qual è stata la sua più grande soddisfazione nel lavoro?
Fino a questo momento è stato un susseguirsi di successi. Mi riferisco agli apprezzamenti, non al lato economico. Un ragazzo con disabilità ha percorso 12mila chilometri con una bicicletta realizzata dalla nostra azienda e partendo dal Sudafrica è arrivato fino in Marocco. Ha viaggiato per mesi solo con questo dispositivo su strada. Il successo che riscontriamo tutti i giorni è arrivato dal fatto che è sempre stato un progetto condiviso, non soltanto frutto del mio ingegno e della mia esperienza. Dico sempre che il mio prodotto è frutto dell’ingegno di tutti noi che lo usiamo, non soltanto del mio. Continuo ad avere un contatto amichevole, quotidiano, con i fruitori dei nostri prodotti, ma non quanto vorrei: nel mondo abbiamo decine di migliaia di pezzi in circolazione.
Essere imprenditore in un settore dove sono anche un utilizzatore, realizzare prodotti che vengono usati da persone disabili, come sono io, mi mette in una posizione di vantaggio
Noi siamo sì un’industria ma ancora artigianale, facciamo un lavoro quasi sartoriale. Ogni ausilio viene realizzato secondo quelle che sono le necessità di ogni persona, costruito sulla base di specifiche esigenze, non è un oggetto standard universale. Ci sono persone tetraplegiche che guidano il nostro dispositivo e che non hanno l’uso delle mani: per loro è necessaria una serie di comandi speciali. Da parecchi anni produciamo anche il modello kids, dedicato ai bambini con disabilità, l’abbiamo fornito anche ad un bimbo di quattro anni: i genitori volevano che fosse il suo triciclo. Produciamo carrozzine bariatriche, per persone che pesano anche 230 chili. È l’ausilio che viene costruito per le esigenze della persona e non la persona che si adatta all’ausilio standard.
Siamo sì un’industria, ma ancora artigianale. Facciamo un lavoro quasi sartoriale, è l’ausilio che viene costruito per le esigenze della persona e non la persona che si adatta all’ausilio standard
Si può dire che lei sia diventato imprenditore grazie alla disabilità o è troppo?
La disabilità mi ha fatto diventare imprenditore. Quando mi sono ritrovato nella mia condizione, ho dovuto di colpo azzerare tutto quello che ero, un pilota di moto enduro con 14 anni di esperienza, che si ritrova su una carrozzina: il colpo è stato traumatico. Per qualche mese, ho dovuto immaginare come volevo la mia vita, nella disabilità ho trovato delle risorse interiori che non conoscevo. Oggi mi sento come se avessi quasi una marcia in più. Non voglio fare una lode alla disabilità, sia chiaro. Il mio spirito sportivo mi ha aiutato a vincere contro me stesso, contro le mie paure. Cerco di diffondere a tutti la mia voglia di vivere, di combattere. Non bisogna subire le situazioni ma carcere di modellarle o modificarle affinché si possa stare bene. Credo che non dobbiamo essere dei soggetti passivi, pur consapevoli che abbiamo dei grandi limiti. Io affronto la vita sempre in maniera positiva, con entusiasmo. Serve tanto confrontarsi con le persone che sono nelle nostre stesse condizioni, socializzare e cercare di cogliere il meglio di quello che ci circonda.
Non voglio fare una lode alla disabilità, sia chiaro. Ma oggi mi sento come se avessi quasi una marcia in più. Il mio spirito sportivo mi ha aiutato a vincere contro le mie paure. Cerco di diffondere a tutti la mia voglia di vivere, di combattere
Professionalmente, come vede il futuro?
Voglio migliorare sempre, l’azienda investe tanto in ricerca e sviluppo, per rendere meno complicata la vita alle persone con la disabilità e fare in modo che possano fare più cose possibili. Ho degli ingegneri che collaborano con me, creiamo nuovi prodotti. Abbiamo realizzato una carrozzina con tre ruote motrici, tre per tre, che permette di andare dappertutto: sulla neve, sulla sabbia, sui sentieri di montagna.
Questo articolo fa parte di una serie dedicata a “Disabilità & impresa”. Qui è possibile leggere gli altri articoli:
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Imprenditori con disabilità: la sfida di essere più capaci degli altri
Foto dell’intervistato
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