Mondo
Yolande Mukagasana: cosa faccio di una vita non più mia
Dieci anni fa, nel genocidio, perse tutta la famiglia, compresi marito e tre figli. Ma non si è arresa al dolore.
Lo sguardo di madre non l?abbandona mai. Nemmeno a dieci anni di distanza dei massacri che in Rwanda spazzarono via suo marito Joseph e i suoi figli, Sandrine, Christian e Francine. I gesti rimangono quelli di sempre, quasi protettivi, così come la sua predisposizione al dialogo e all?ascolto, attenzioni consuete per chi come lei, infermiera di professione, ha «curato per una vita le ferite, anche mentali, degli altri». Eppure quella di Yolande Mukagasana, oggi 50enne, è una lotta forzata e incessante per una sopravvivenza al quotidiano. A spingerla nel proseguire il suo cammino di testimone del genocidio del Rwanda, l?orrore del passato e le menzogne del presente. In attesa di un erede che possa spiegare al mondo ciò che non avremmo dovuto ascoltare e vedere in Rwanda94.
Vita: Lei afferma che la sua identità di sopravvissuta è la sua nuova identità. Eppure sono già trascorsi dieci anni…
Yolande Mukagasana: Questa identità, io non l?ho mai scelta. Sono stati e sono tutt?ora gli uomini e gli eventi storici ad impormerla. Io sono costretta a salire sul palco per testimoniare quanto è accaduto in Rwanda nel 1994.
Vita: Nei confronti di chi?
Mukagasana: Parlare del genocidio significa confrontarsi con forze negative politiche e finanziarie. Sin dal 94, c?è stata una confusione tra il genocidio, il Fronte patriottico rwandese, Kagame, il governo. In un modo o in un altro, ci si accanisce a negare questo genocidio. Sin dal principio, ho desiderato con tutte le forze di lottare contro il revisionismo storico.
Vita: Questo spiega il suo coinvolgimento in Rwanda94?
Mukagasana: Sì. Ho dovuto trovare strategie che mi permettessero di combattere queste forze. Il teatro è stata una di queste. All?indomani del genocidio, i genocidari e coloro che li sostenevano avevano una forza di persuasione molto più forte in Occidente rispetto alle vittime dell?eccidio. All?epoca, mi trovavo in Belgio, totalmente paralizzata dal trauma e dalla convinzione che nessuno potesse credere a ciò che avevo visto e subito. In realtà, non mi fidavo di nessuno, men che meno dei bianchi, che mi avevano abbandonato alla mia sorte. Poi, ho deciso di scrivere e raccontare. All?uscita del mio primo libro, ho incontrato Marie-France (Collard, coautrice di Rwanda94, ndr) che mi chiese di partecipare al progetto del Groupov. Nonostante la sua sincerità, rimanevo convinta che dietro la sua affabilità si nascondevano interessi molto meno nobili. Poco a poco, mi sono resa conto che nutrivamo gli stessi obiettivi: raccontare quasi scientificamente a voce alta i fatti così come sono accaduti nel 1994.
Vita: Lei ripete che gli ultimi dieci anni non le appartengono. Cosa intende dire?
Mukagasana: Io questi dieci anni non li avrei dovuti vivere. Avrei dovuto morire durante il genocidio. Ma eccomi qui. Gli anni che trascorro dal 1994 appartengono alle generazioni future e alla storia. Sono diventata una biblioteca. E una biblioteca non è utile a se stessa, ma agli altri.
Vita: Eppure, nell?aprile scorso, a casa sua, mi aveva detto di essere stanca di vestire i panni di testimone principale del genocidio del Rwanda?
Mukagasana: Sì, perché è scoraggiante vedere che l?uomo non sembra capace di trarre le lezioni del passato. Poi, sono stanca dell?idea che si voglia far morire me e la mia testimonianza. Purtroppo, fino a quando non ci sarà un giovane che mi dirà: «Yolande, è ora di riposarti. Ci penso io a prendere il tuo scettro», non posso fermarmi. Per ora, continuo a lasciarmi trascinare dalla corrente?
Vita: E dove ti sta conducendo?
Mukagasana: Verso l?eternità. Ho la sensazione che sono riuscita a cambiare qualcosa in Occidente. Una buona parte della società civile occidentale si è resa disponibile ad ascoltarmi e a condividere ciò che dico. È grazie a questa società civile che riesco ad andare avanti.
Vita: Non ha mai sentito il rischio di sentirsi imprigionata dal ruolo che gli altri le hanno fatto assumere?
Mukagasana: Non vorrei che le persone pensassero che ho voluto fare del ruolo di testimone una professione. Io non mi limito a essere una testimone, ma continuo a riflettere e a cercare di spiegare il perché del nostro orrore. Mi situo ben al di là della semplice testimonianza.
Vita: Quali sono gli ostacoli che ha incontrato in questo percorso?
Mukagasana: Prima di tutto ci sono gli ideologi del genocidio che non sono solo rwandesi o africani. Spesso si sente parlare dei carnefici, ma la cosa più pericolosa rimane un?ideologia del genocidio estremamente radicata in molti ambienti occidentali, cioè in coloro che appoggiano l?idea secondo la quale i tutsi sono per natura degli invasori, pericolosi e dominatori. Trovo che i mass media occidentali hanno grandi responsabilità nel non proteggere le persone da questa ideologia.
Vita: Che riflessioni le suscitano i drammi, come quello del Darfur, che affliggono il continente africano ?
Mukagasana: è una continuità della storia. Oggi, la vita non ha più nessun valore. A primeggiare sono gli interessi dei potenti. è una politica molto più cruenta di quanto possiamo immaginare. Paradossalmente mi dà ancora più forza nel voler spiegare il nostro genocidio.
Vita: Com?è cambiato in questi anni il ricordo di suo marito e dei suoi figli?
Mukagasana: Sono più che mai presenti. Sembra strano, ma più mi convincevo a ripetere «Vi lascio qua, lasciatemi vivere perché devo continuare a vivere», e più mi stavano vicini. Questa è la ragione che mi ha spinto negli ultimi dieci anni a perseverare nella ricerca dei loro resti. Quando sono riuscita a trovare quelli di Joseph, mio marito, il suo corpo era integro. Per me è stato sorprendente perché nella fossa comune in cui è stato scaraventato, vi erano molti cadaveri senza testa. Una donna che era stata scaraventata ancora viva in quella fossa comune, e che poi si salvò, ci spiegò che i carnefici usavano tagliare le teste affinché i corpi non venissero riconosciuti. Aver scoperto il cadavere di Joseph mi ha permesso di compiere una sepoltura mentale. Mi sono sentita di colpo più serena.
Vita: Che ruolo ricopre nella sua vita l?associazione da lei fondata?
Mukagasana: Importantissima. Il nome dell?associazione non è senza significato. Nyamirambo-Point d?appui (punto d?appoggio, ndr) si riferisce al quartiere di Kigali in cui ho trascorso una vita e dal quale ho ricevuto tutto il bene di questo mondo: mio marito, i miei figli, i miei amici e vicini. Nel contempo, Nyamirambo è il quartiere che mi ha scaraventato nelle braccia dell?odio e della morte. Nyamirambo rimane il mio punto di riferimento attraverso il quale voglio ricostruire la vita sulla morte. Con quest?associazione lotto per la memoria del genocidio, ma per una memoria produttiva. Punto sull?educazione con il recupero e la scolarizzazione di alcuni orfani del genocidio. è l?educazione a determinare la vita o la morte delle generazioni future.
Info:
Nyamirambo – Point d?appui
235 rue Royale Sainte Marie-1030 Bruxelles
tel. e fax +32.(0)2.2459213
lamemoire@hotmail.com
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