Non profit

Aspettando le 2 Simona

Ore di ansia per la sorte di Simona Pari e Simona Torretta, di Rahad Alì Abdul e Mahnaz Bassan. Sul numero di Vita in edicola da oggi un dossier sulla cooperazione in rosa

di Giuseppe Frangi

Le fotografie ultimamente parlano molto più delle parole. Come quelle delle due ragazze che da dieci giorni sono sulle prime pagine di tutti i nostri giornali. Qui c?è ?Simona uno? che lavora sorridendo nel suo ufficio un po? scalcinato di Bagdad. Là c?è ?Simona due? che improvvisa un passo di ballo pieno di tenerezza con un bambino iracheno. Qui c?è ?Simona uno? che posa, stretta in un abbraccio con un?amica col velo in testa. E là c?è ?Simona due? che spalanca un sorriso indimenticabile, mentre una ragazzina dagli occhi di carbone e con due fiocchi rosa in testa le gira il braccio attorno al collo. Sono foto piene di pace e di amicizia: se proviamo però a realizzare il contesto in cui sono state scattate, potremmo anche dire che quelle foto sono la cronistoria di un piccolo miracolo. Certo, la cronaca oggi parla delle due Simone in termini purtroppo assai diversi. Il fiore delle loro vite è finito inaspettamente nell?ingranaggio crudele della guerra. E l?angoscia per il loro destino sembra aver scacciato lo stupore per quei loro sorrisi. Eppure non è giusto scacciare lo stupore. Perché quelle due ragazze, dallo stesso nome e dalla stessa età, hanno lasciato dietro di loro una scia di umanità da cui è impossibile non lasciarsi contagiare. Pacificate prima ancora che pacifiste, hanno costruito amicizie e ponti, nonostante tutt?attorno la logica della guerra si mangiasse anche l?aria da respirare. Hanno messo i rapporti umani davanti a tutto, dimostrando che l?amicizia per l?altro può essere realmente un antidoto all?odio predicato e dilagante. Hanno fatto cose semplici e piccole, che oggi appaiano incredibili ed enormi: costruire pezzetti di pace reale nel cuore di una guerra (i numeri, a proposito, lasciano ormai ammutoliti: 10mila morti solo nella capitale, 3mila vittime di attentati, mille mori americani). Chi legge quella loro esperienza in chiave ideologica (per irriderle cinicamente, ma anche ¬ ci perdonino tanti amici – per difenderle schematicamente), è un po? come se chiudesse gli occhi davanti alla realtà. Certamente la realtà oggi ha chiuso tutti gli spazi ai costruttori di pace a Bagdad. Chi ha rapito le ?due Simone? ha voluto strappare simbolicamente anche quell?ultimo lembo di terra di mezzo, di neutralità che ancora, fragilmente, reggeva nella capitale irachena. Se ne erano accorte anche loro di quel che stavano accadendo e, come ha rivelato Repubblica, avevano confidato le loro paure a un?autorità islamica amica. Ma invano. Nella fragilità del loro essere donne, anzi del loro essere ancora ragazze, hanno costruito qualcosa che non si ferma, che è contagioso nonostante vada contromano rispetto alla prepotenza della storia presente. I frutti sono davanti a noi: la commovente manifestazione dei bambini e delle mamme a Bagdad, per chiedere la liberazione delle loro amiche; un episodio che Barbara Contini, una che di Iraq ne sa qualcosa, non ha esitato a definire straordinario. E poi l?Islam moderato italiano che, come mai sino ad ora, ha messo la testa fuori, volendo giocare non più di rimessa ma in prima linea nella lotta al terrorismo. Sono tutti segni generati dalle ?due Simone?. E infine vogliamo immaginare, il segno lasciato su tante ragazze e ragazzi, che hanno potuto scorgere, dietro quelle foto, le storie di due come loro, mosse però da una speranza grande. Di due che con semplicità non si sono arrese all?ineluttabilità della guerra senza affatto sentirsi delle eroine. Non sottovalutiamo questa onda lunga, non sottovalutiamo il tesoro di positività che le ha fatte essere in un luogo da cui, magari, con miglior calcolo avrebbero dovuto sfilarsi prima. Adesso la speranza e la preghiera è quella di poter al più presto rivederle sorridere. Comunque, pensando a loro, più che rabbia, più che paura, sentiamo gratitudine.

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