«A 14 anni, conseguita la licenza media, decisi di proseguire gli studi attraverso i corsi serali per poter lavorare e crearmi una mia indipendenza anche economica. I miei familiari non mi ostacolarono in alcun modo, e quella fu una grande fortuna: perché non è detto che ognuno possa fare sempre ciò che vuole. Mi sono diplomata e ho pure fatto esperienza in una fabbrica tessile. Poi, mentre cercavo di avviare un’attività legata alla moda insieme a una mia cara amica, ho sentito il bisogno di fare qualcosa di più gratificante. Era la stessa sensazione che non mi consentiva di sentirmi appagata con i ragazzi con cui avevo avuto relazioni sentimentali. Lì è cominciata la mia vera svolta. Avevo 25 anni…». Suor Michela Marchetti spiega come è nato in lei il proposito di prendere i voti e dedicarsi a Dio e alle persone in difficoltà.
Suor Michela, si presenti. A una donna non si chiede l’età, però…
Guardi, non mi formalizzo: sono felicemente adulta. Ho 58 anni, non sono giovanissima ma neppure vecchia. L’ambito cronologico è importante anche nella vita religiosa per rispettare i tempi e, all’occorrenza, saper fare un passo indietro a vantaggio dei giovani.
Lei ama gli opposti. È nata a Bassano del Grappa ma dal 1991 risiede a Crotone.
Dal nord al sud, già. Quando mi dicono che sono veneta, faccio notare loro che ho trascorso più tempo in Calabria che nella mia terra d’origine: 34 anni contro 21.
Ha girato il mondo, in lungo e in largo.
Per tredici anni ho fatto parte del gruppo responsabile della mia Congregazione (le suore della Divina Volontà, ndr), dunque ho avuto modo di trascorrere del tempo nelle nostre missioni in Brasile, Ecuador, Colombia, Camerun, Benin, Albania e Timor Est.
Quali differenze sostanziali ha trovato rispetto al lavoro che svolge da tanti anni in Calabria?
Noi, come suore della Divina Volontà, ci inseriamo dal basso, dunque ogni realtà è molto diversa dalle altre. Cerchiamo di formare e affiancare altre persone per trovare risposte a chi vive nella marginalità in uno specifico territorio. Rispetto all’Italia, fare la missionaria in Africa, in America latina o in Asia è tutta un’altra cosa: diventiamo sorelle di quelle realtà, ci viene chiesto di assumere lo stile e la cultura di quei luoghi per camminare con gli altri. Non andiamo lì per impiantare delle cose, bensì per condividere la vita con la gente del posto. Non riusciamo a fare nulla, se non insieme agli altri. Costruire il tessuto comunitario fa ricchezza per tutti. Negli ultimi tempi visito in particolare le nostre comunità religiose in Italia, e in ogni luogo cambiano le nostre presenze a partire dai bisogni del territorio e dalle nostre possibilità, ma ovunque ho potuto riconoscere che siamo sorelle con chi sta ai margini.
Si sente uno strumento nelle mani di Dio oppure conta di più la volontà personale?
Ogni giorno ringrazio il Signore per la vita. Credo di aver ricevuto così tanto che, quello che faccio quotidianamente, è solo una sovrabbondanza di ciò che ricevo. Ho avuto la fortuna di nascere in una città e in una famiglia che mi hanno dato tanto. I miei genitori, come ho detto prima, non mi hanno mai ostacolato nelle scelte. Anzi, hanno avuto sempre grande fiducia in me. Non è da tutti. E più vado avanti negli anni, più mi rendo conto di quanto ho ricevuto. Per rispondere alla sua domanda, spero di essere un debole strumento nelle mani del Signore, come si definiva la nostra fondatrice Beata Gaetana Sterni.
Aveva cominciato a lavorare nel mondo della moda e a produrre capi nel suo atelier. Poi, che cosa è accaduto?
La mia amica aveva iniziato a fare un servizio in parrocchia. Tra me e me, pensavo che fosse matta. Eppure, vedevo che la sua gioia era differente dalla mia. Iniziai a frequentare lo stesso gruppo di persone, e poi a meditare e pregare. All’improvviso è esplosa nella mia vita una gioia profonda che mi ha portato a scegliere una congregazione di suore che non c’era nella mia città. Erano donne del tutto normali, peraltro non riconoscibili dall’abito che indossavano, con un profondo rapporto con la gente oltre che con Dio. Stavano dentro la storia ma attraverso la relazione con le persone e con il Signore.
Lei usa poco l’abito che le hanno consegnato dopo aver preso i voti.
Quando sarà il momento, credo che Dio non mi chiederà com’ero vestita nella mia esperienza terrena, bensì se ho amato, se sono stata felice e appassionata, se ho usato bene i doni che mi ha dato. Il segno che accomuna me e tutte le consorelle in giro per il mondo è un piccolo crocifisso. La nostra divisa (una camicia beige e una gonna blu) non dev’essere segno di divisione: noi cerchiamo la condivisione. Ecco perché, spesso, non la portiamo: non vogliamo distinguerci dagli altri. Se accompagniamo un giovane o una donna in difficoltà, l’abito ci fa notare e, allo stesso tempo, può ghettizzare quelle persone. Questo, ovviamente, non vuole essere un giudizio ma solo un modo di stare in mezzo alla gente.
È stata questa caratteristica ad affascinarla?
No, sino a poco tempo prima, l’ultima cosa che avrei immaginato di fare era proprio la suora. Perché nel mio immaginario le vedevo totalmente dedite ma un po’ distaccate dal mondo in cui viviamo. Le donne, all’interno della Chiesa, sono state spesso una sorta di suppellettile. Sentivo profondamente il rapporto con Dio, ma allo stesso tempo avvertivo che mi chiedeva di stare con tutta la mia passione in mezzo alla gente. Una donna normale dentro la vita normale, che cammina accanto agli altri. Ho imparato a conoscere il Signore Gesù molto di più stando con la gente povera e in situazioni di marginalità, ascoltando le loro storie quasi sempre pesantissime.
Dica la verità: se la sua vocazione non fosse stata così forte, lei probabilmente avrebbe lavorato per una ong in un Paese del Terzo mondo.
La mia scelta vocazionale è un mistero anche nella mia vita, a partire dal vangelo che mi trovo a condividere. Mi occupo di sociale da decenni; laddove si fa più fatica, nasce una resilienza che sviluppa le perle più preziose. A Crotone, con le mie consorelle e un gruppo di giovani volontari, nel 1997 abbiamo aperto il Centro di integrazione sociale “Noemi”. La ricchezza di quella realtà di solidarietà e relazioni, nel 2001, ha fatto nascere la cooperativa sociale Noemi, con progetti che guardavano alla reale integrazione delle donne. Oggi questa realtà è molto più strutturata: contiamo 10 soci lavoratori, 16 soci cooperatori volontari e 20 volontari. Successivamente si sono sviluppati tanti servizi dedicati ai bambini, alle donne e alle famiglie. In tempi più recenti, però, ho avvertito la necessità di fermarmi un attimo e mettermi di lato.
In che senso?
Bisognava cedere il passo ai giovani, nel frattempo diventati adulti: avevano compiuto un lungo periodo di formazione, erano pronti. Adesso mi dedico maggiormente all’ascolto della realtà che mi circonda, per esempio nelle famiglie, nel carcere, all’ospedale oncologico, alla Caritas.
C’è tanto bisogno di ascolto: è un elemento che emerge chiaramente da anni.
È vero. E io ho deciso di mettermi all’ascolto dei poveri, dei sofferenti. La cooperativa prosegue anche se la mia presenza è minore rispetto al passato. Nella società contemporanea c’è tanta solitudine. C’è bisogno di aprirsi, di parlare. Viviamo in un periodo in cui non riusciamo a fermarci. Io invece dico che abbiamo necessità di ascoltarci nel profondo, senza farci travolgere dagli impegni. Il mondo è stato già salvato da Gesù Cristo. C’è il rischio, anche nella vita religiosa, non solo di non diventare uno strumento, ma anche di venire travolti dalle cose da fare. Anche il Concilio Vaticano II ci chiede di restare dentro la storia di tutti i giorni, nonostante tutte le cose orribili che stiamo vedendo nel mondo. Non è casuale che Papa Francesco abbia dedicato il Giubileo 2025 alla speranza, in una situazione generale che sembra senza speranza. E il pontefice ci chiede una speranza credibile, non un ottimismo di facciata. Non è il dire “va tutto bene” o mettere una serie di like nei social. Dobbiamo tornare a esserci nella quotidianità, nel concreto delle relazioni e con un ascolto reale delle persone. Questa è un’autentica profezia. La vita è bella dentro le piccole cose.
Dunque, nel concreto, che cos’è la speranza?
Credere che il Signore c’è. E c’è dentro le storie più disperate. Dobbiamo avere il coraggio di stare accanto a quelle persone, non di cercare di salvare il mondo. Certo, è difficile avere speranza quando si vedono bambini e civili inermi uccisi dalle bombe, ma aveva ragione la scrittrice Etty Hillesum uccisa ad Auschwitz: “Nelle situazioni disperate chiediamo a te, o Dio, di intervenire; tu invece ci chiedi di custodire spazi di te in noi”. Dentro la quotidianità, non necessariamente nelle grandi opere. È arrivato il momento di usare il potere (politico, economico, mediatico) per generare la benevolenza. Dobbiamo avere il coraggio di dire no e cercare di custodire le tracce di umanità. Io lo vedo fare da molte mamme e molti papà, che spendono la vita sino in fondo per i loro figli. Oppure dai volontari che si danno con gratuità.
Che cos’è per lei la vita religiosa?
Mettersi nella posizione di chi riceve e non di chi dà, di chi condivide con gratuità la vita come discepola del Signore Gesù. Ho visto tanti poveri dare con grande generosità. La ricchezza a volte ti imprigiona, ma ho visto anche alcuni ricchi condividere con gioia. Ricordiamoci, poi, che le cose si fanno insieme: da soli non si fa granché. Penso, per esempio, ai tanti volontari che ho incontrato in questi anni.
Nel 2015 le è stata conferita l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica per il suo impegno nel sociale.
Un riconoscimento inaspettato, che condivido con tutte le persone con cui ho lavorato. La conferma che stavamo andando dalla parte giusta per soddisfare alcuni bisogni. L’anno scorso la commissione Pari opportunità del Comune di Crotone ha voluto assegnarmi il premio Hera Lacinia, riservato alle donne che si sono distinte nella società. Le confesso che la cosa mi ha imbarazzata molto, all’inizio, perché non amo le luci della ribalta. Ma un giorno don Luigi Ciotti mi fece riflettere molto. Mi disse: è una cosa bella, accoglila per quella che è. Devo dire che sono molto grata per questo riconoscimento perché mi sento particolarmente legata alla comunità crotonese.
Non ha mai avvertito il rimpianto di non aver costruito una sua famiglia? In tanti suggeriscono di far fronte alla crisi di vocazioni consentendo ai religiosi di fare un passo del genere.
Me lo chiedono in tanti. Qualcuno mi dice, persino: “Beata te che non hai figli!”. Ma non è così, perché per me la maternità, come dimensione di custodire, far crescere e accompagnare alla vita, segna il tempo e le scelte delle mie giornate. Questo spazio resta aperto per una generatività gratuita e uno spazio di relazione aperto.
Qual è oggi la priorità tra le tante priorità?
L’emergenza che riguarda la formazione e l’educazione, soprattutto dei minori. Quale futuro lasciamo a tutti loro? È fondamentale anche lo sviluppo delle nostre realtà legato alla cura dell’ambiente. Aggiungo una terza urgenza: ci sono delle piazze virtuali molto belle ma anche spazi concreti che hanno bisogno di essere abitati. Noi dobbiamo uscire a cercarli. Li troviamo soprattutto nelle carceri e nei luoghi della sanità, che richiedono un’ulteriore presenza di umanità e di speranza.
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