Maria Mikaelyan, Phd. Nata a Mosca nel 1988. Nel 2010 si è laureata in storia dell’arte all’Accademia Statale delle Arti e dell’Industria Stroganov di Mosca. Dal 2012 vive e lavora in Italia. Nel 2020 ha discusso la tesi di dottorato in architettura e museologia presso il Politecnico di Milano. Lavora come ricercatrice indipendente nonché traduttrice presso il Tribunale di Milano. Autrice di due monografie accademiche e vari articoli su riviste scientifiche italiane e straniere. Co-fondatrice della Comunità dei Russi Liberi dal 2021. Candidata della lista “Stati Uniti d’Europa” alle elezioni europee del 2024.
Come sei finita in Italia e perché?
La prima volta che sono venuta qui era il 1993, avevo cinque anni. Mia nonna, Elena Petrovna Blinova, era una traduttrice di lingua italiana. Ha lavorato per molti anni con il Teatro Bol’šoj, con Rostropovič e con diversi politici, fin dalla fine degli anni ‘50.
Elena Petrovna Blinova? Un nome molto noto!
Sì, era conosciuta come una delle traduttrici certificate più competenti. È stata tra i primi laureati del dipartimento di italiano dell’Istituto Maurice Thorez di Lingue Straniere.
E tu, dove hai studiato?
Mi sono laureata all’Accademia di Belle Arti Stroganov di Mosca. Dopo ho vissuto tra due Paesi: lavoravo a Roma e tornavo a Mosca. Ma il trasferimento definitivo in Italia è avvenuto dopo gli eventi del 6 maggio 2012, dopo la manifestazione in piazza Bolotnaya.
Perché?
Per me quello è stato un punto di non ritorno. Ho visto persone picchiate a sangue: anziani, donne, civili. E nessuno faceva nulla. Ho capito che non potevo più vivere così.
Familiari e amici ti hanno sostenuto?
No, molti mi dicevano: “Pensa a te stessa, goditi la vita”. Ma io credevo che tra il 2011 e il 2012 la Russia avesse una possibilità. E l’abbiamo persa.
Pensi che all’epoca si potesse fare qualcosa?
Sì, se la gente non fosse partita per le vacanze di Capodanno, se non avesse ignorato gli appelli. Ma dopo tutto è andato in rovina: i media sono stati comprati, la società civile distrutta e abbiamo perso tempo.
Come hai vissuto il 24 febbraio 2022?
Per me è stato un giorno che ha diviso la vita in “prima” e “dopo”. Mi sono svegliata, ho letto le notizie, ma non riuscivo nemmeno a capire cosa stavo leggendo. E’ stato uno shock. Il cervello non riusciva ad elaborarlo.
Sì, per me è stata la stessa cosa. Stavo lì immobile, incapace di comprendere.
È una sensazione che conosco bene. Appartengo a una generazione la cui infanzia è stata segnata dalle guerre cecene. Ricordo come nel 1994 guardavo le notizie su Grozny. Avevo solo sette anni, non capivo nulla, ma quei nomi — Urus-Martan, Mozdok, Khankala — sono rimasti per sempre nella mia memoria.
Tempi difficili e spaventosi.
Sì. E vedere i carri armati marciare su Kiev mi ha ricordato Grozny. Anche allora, nel 1994, pensavano di conquistare la città in tre giorni. Portavano persino le uniformi da parata… È come un déjà vu della storia.
Ti senti responsabile per questo?
Certo. Sono nata in Russia e credo che ogni adulto debba assumersi la responsabilità per il proprio Paese e le sue azioni. Non la colpa, la responsabilità.
Pensi che avresti potuto prevenire qualcosa?
Abbiamo fatto molto, ma non abbastanza. Tra il 2011 e il 2012 abbiamo avuto una possibilità e l’abbiamo persa. Questa è la nostra responsabilità collettiva.
Come vivi la tua attività ora, essendo cittadina italiana?
È difficile. Vivo qui, la mia vita è legata a questo Paese, ma il legame con la Russia non scompare. Sono le mie radici, la mia storia.
Cosa ti aiuta a farcela?
Cerco di fare ciò che posso. Abbiamo organizzato la “Comunità dei russi liberi” qui a Milano. Abbiamo iniziato con le manifestazioni per Navalny nel 2021, e dopo l’inizio della guerra ci siamo concentrati sull’aiuto ai rifugiati.
E i rapporti con la comunità ucraina?
All’inizio non è stato facile, e anche oggi i progetti comuni sono pochi. Ma in questi anni hanno visto che non lottiamo per una pace astratta “a ogni costo”, ma per la vittoria dell’Ucraina e una pace giusta per il popolo ucraino. Questo ha aiutato a costruire fiducia. E a realizzare progetti per gli ucraini e con loro.
Continuate ad aiutare?
Sì, anche se negli ultimi anni è diventato più difficile. Non abbiamo grandi sponsor, tutto si basa sulle risorse personali degli attivisti. Dall’inizio della guerra io e altre donne abbiamo fatto i turni come traduttrici al centro di accoglienza di Milano Centrale, poi abbiamo avviato laboratori creativi per i bambini rifugiati, organizzato escursioni per loro, aiutato i genitori con i documenti e celebrato feste. Facciamo tutto il possibile con le forze e le risorse che abbiamo.
Nonostante le minacce e le pressioni, vado avanti. Recentemente ho ricevuto minacce sui social media e ho subito atti di vandalismo. Ma non mi fermeranno.
Come vedi la tua attività futura?
Cosa è successo esattamente?
La maggior parte delle minacce arrivava da TikTok. Lì, grazie all’anonimato, le persone si sentono libere di fare minacce fisiche o diffondere calunnie come: “Ti paga il Pentagono”. Ci sono stati anche episodi di vandalismo: hanno rotto la mia cassetta della posta, strappato la targhetta con il nome. Due giorni dopo, qualcuno è entrato nella casa di campagna di mio marito, ha messo tutto in disordine, ma non ha rubato nulla.
Hai denunciato?
Certo, ho fatto tre denunce. Tutto è documentato: foto, screenshot. La polizia sta lavorando, ma i tempi delle indagini in Italia, come puoi immaginare, non sono rapidi.
Hai detto che Navalny è stato il tuo punto di partenza nell’attivismo. Cosa ha significato per te la sua morte?
È stata una perdita enorme. È stato il primo a rivolgersi alla mia generazione in modo comprensibile. I suoi appelli erano chiari, semplici, e sentivi che era necessario agire. La prima volta che sono scesa in piazza è stato nel 2011, grazie a lui.
Hai sperato in un cambiamento con lui?
Sì, la maggior parte di noi ci sperava. Anche se non aspirava alla presidenza, era un simbolo di cambiamento. La sua morte non è solo la perdita di una persona, ma anche di una speranza.
Continuate a mantenere viva la sua memoria?
Sì. Abbiamo raccolto più di 25mila firme per commemorare il suo nome a Milano. Non sarà un cambio di nome di una via, come inizialmente volevamo, ma a marzo inaugureremo un segno commemorativo nel giardino di Anna Politkovskaja. Sarà il primo monumento al mondo dedicato a Navalny, creato con il sostegno delle autorità comunali.
È una grande vittoria.
Sì, ma sogno il giorno in cui la nostra “Comunità dei russi liberi” cesserà di esistere, perché l’Ucraina avrà vinto, la Russia sarà libera e il bisogno di comunità come questa non esisterà più.
Parole forti, sembrano trasmettere speranza. Ma non hai paura?
La cosa importante per i miei detrattori è capire che non mi fermerò. Né le minacce né le pressioni cambieranno le mie convinzioni.
Le foto di questo servizio provengono dall’archivio privato dell’intervistata.
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