Legge di bilancio 2025
Una camicia di forza alla filantropia? Il governo Meloni faccia marcia indietro
Un comma della Finanziaria rischia di tagliare la capacità erogativa delle fondazioni e degli altri enti erogativi a finalità sociali. Un vero pasticcio e un errore culturale, sociale ed economico che va subito corretto
Recita così il comma 858 della legge di Bilancio approvata lo scorso 28 dicembre: «A decorrere dal 1° gennaio 2025, l’applicazione delle misure di contenimento della spesa di cui ai commi 591, 592, 593, 597, 598 e 599 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2019, n. 160, è estesa alle società, agli enti, agli organismi e alle fondazioni di cui al comma 857 del presente articolo. Conseguentemente, tali soggetti, a decorrere dall’anno 2025, non possono effettuare spese per l’acquisto di beni e servizi per un importo superiore al valore medio sostenuto per le medesime finalità negli esercizi finanziari 2021, 2022 e 2023, come risultante dai relativi rendiconti o bilanci deliberati».
La norma, si evince dal comma 857, si applica «alle società, enti, organismi e fondazioni che ricevono, anche in modo indiretto e sotto qualsiasi forma, un contributo di entità significativa a carico dello Stato stabilito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge».
Nel perimetro vanno quindi inclusi anche i crediti di imposta, come quelli di cui fruiscono le fondazioni di origine bancaria per le loro attività erogative come l’art bonus o i fondi per il contrasto alla povertà educativa e per la Repubblica digitale. Istituti tutti regolamentati da leggi dello Stato che oggi vengono messe nel mirino dal Governo Meloni.
Se l’obiettivo, come dichiarato, fosse esclusivamente il contenimento della spesa (i crediti di imposta sono considerati tali per la finanza pubblica) una norma del genere potrebbe sì essere applicata agli enti locali. Non si capisce invece il senso di mettere una tagliola sulle attività erogative di enti non profit come le fondazioni, in particolare quelle di origine bancaria. Risorse che servono a sostenere sistemi di welfare territoriali spesso con governance decisamente più efficienti di quelle della pubblica amministrazione. Ridurre le potenzialità delle fondazioni (costruite su fondi privati, ricordiamolo sempre) sulla base della spesa storica (che nulla ha a che vedere con l’effettiva disponibilità di risorse in un determinato momento) significa di fatto lasciare scoperti bisogni sociali e quindi incrementare la domanda di futura spesa dello Stato. Una scelta semplicemente insensata dal punto di vista del risparmio economico.
Un esempio aiuta a comprendere. Poniamo che una fondazione sostenga con 4 milioni di euro la ristrutturazione di un teatro che fa attività artistiche anche a favore di persone fragili o con disabilità. Fino ad oggi l’ente donatore (ricordiamolo: non profit) avrebbe potuto usufruire di un credito di imposta del 65% (art bonus) sulle tasse da pagare nel 2026. Oggi quella stessa fondazione, se l’importo superasse il limite che porrà il Dpcm regolamentatorio, non godrebbe di quella facilitazione e quindi si troverebbe davanti a un’alternativa senza via d’uscita: rinunciare all’intervento oppure accollarsi l’intera spesa, impegnando risorse che viceversa avrebbe destinato a interventi per rispondere ad altri bisogni sociali. Insomma un vero e proprio “gioco a perdere”, da cui lo Stato non ricaverebbe alcun vantaggio.
Perché allora il Governo si è messo su questa strada? Se la ragione fosse quella di mettere sotto tutela il cosiddetto Terzo settore erogativo, sarebbe un clamoroso atto di forza figlio di una concezione cieca e dirigista dell’uso delle risorse pubbliche. Il presidente del consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti facciano marcia indietro.
Foto Sintesi: il ministro dell’Economia e della Finanze Giancarlo Giorgetti e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni
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