Welfare

Sclerosi multipla, un nuovo farmaco dà buoni risultati

L' interferone beta-1a a basse dosi può ritardare i nuovi attacchi della malattia all'esordio

di Gabriella Meroni

Una terapia di due anni con interferone beta-1a a basse dosi in persone colpite da sclerosi multipla all’esordio riduce di un quarto il rischio di un nuovo attacco, quindi la probabilita’ di sviluppare la forma clinicamente definita della malattia. Non solo. Il farmaco e’ comunque in grado di ritardare di un anno un eventuale nuovo episodio, raddoppiando il periodo medio di tempo libero da crisi. I risultati emergono da uno studio coordinato dal professor Giancarlo Comi, direttore del Centro Sclerosi multipla dell’ospedale San Raffaele di Milano, pubblicato sul prossimo numero di ‘Lancet’. I ricercatori, si legge in una nota del San Raffaele, hanno arruolato 309 soggetti (in 57 centri di 17 nazioni europee) colpiti da un primo episodio di patologia demielinizzante del sistema nervoso centrale (diagnosi di sclerosi multipla all’esordio) e li hanno randomizzati tra interferone beta-1a (22 microgrammi in un’unica dose settimanale) e placebo, somministrati in doppio cieco. ”Dopo due anni – riferisce Comi – la percentuale di pazienti che ha presentato un nuovo attacco della malattia e’ stata del 45% nel gruppo placebo e del 34% nel gruppo trattato, il che corrisponde ad una riduzione del rischio di nuove crisi, e quindi dello sviluppo di sclerosi multipla clinicamente definita, pari al 24%, cioe’ quasi un quarto”. Ma anche nei soggetti trattati che continuavano a presentare attacchi, riferisce lo specialista, ”la comparsa della crisi veniva ritardata in media di un anno e il tempo libero da episodi risultava piu’ che raddoppiato: da un valore medio di 252 giorni a uno di 569 giorni”. ”Prima d’ora – sottolinea Comi – la dose di 22 microgrammi in singola somministrazione settimanale non si era mai dimostrata efficace (in base a studi precedenti, infatti, era stata stimata una dose attiva compresa tra tra 66 e 132 microgrammi, piu’ elevata e quindi piu’ tossica). Questo studio e’ importante sia perche’ fornisce un’evidenza indiretta sulla patogenesi della malattia, sia perche’ dimostra che trattarla precocemente consente di prevenire la formazione di nuove lesioni. La strategia terapeutica dovra’ dunque essere cambiata – conclude l’esperto – senza piu’ rimandare l’inizio della terapia nei pazienti con diagnosi certa e nei quali vi e’ evidenza di attivita’ della malattia”.


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