Suor Rita Giaretta

Dal sindacato alle Orsoline: «Così ho salvato 600 donne dalla strada»

di Luigi Alfonso

Una donna risoluta che, a 29 anni, lasciò il fidanzato e la famiglia per seguire la sua vocazione. Ha fondato Casa Rut a Caserta e poi Casa Magnificat a Roma, aiutando centinaia di persone a ricostruirsi una vita. L'esperienza da infermiera e alla Cisl prima di prendere i voti

«Ero una ragazza come tante, amante della vita e con diversi interessi. Avevo pure un fidanzato, con cui condividevo tante passioni. Solo che, a un certo punto, ho sentito che mi mancava qualcosa di importante. E quel qualcosa l’ho trovato in Dio e in un percorso un po’ differente da quello che avevo in mente». Suor Rita Giaretta tratteggia il ritratto di sé stessa e parla di un’esperienza maturata poco alla volta, con grande determinazione e consapevolezza, ma non senza incontrare ostacoli. Classe 1956, originaria di Quinto Vicentino (a otto chilometri da Vicenza), la suora Orsolina del Sacro cuore di Maria ora vive a Roma, in un quartiere della periferia est della città, dopo una parentesi ultraventennale a Caserta.

Come la prese il suo fidanzato?

Comprese la mia situazione e restammo amici. Poi lui si è sposato, ha avuto dei figli. Peggio l’avevano presa i miei genitori. Sa, la nostra era una famiglia cattolica praticante ma anche segnata da una cultura patriarcale e maschilista, con ruoli ben definiti e prospettive costringenti, non tanto per i miei due fratelli maschi. Infatti, sin da quand’ero una ragazzina, mia madre aveva iniziato a prepararmi la dote in vista di un possibile matrimonio, come si usava in quei tempi. L’alternativa sarebbe stata quella di occuparmi dei miei genitori nella loro vecchiaia.

Una sorridente Suor Rita con alcune delle donne liberate

Invece accadde qualcosa di molto diverso.

Come ho detto, ero una ragazza come tante, piena di vitalità e alla ricerca del senso della vita. Avevo una certa inquietudine e non mi faceva piacere andare incontro a un destino con poco spazio di libertà solo perché ero la figlia femmina. Terminati gli studi, trovai lavoro da infermiera in una clinica di Vicenza. Mi piaceva tantissimo. Per un certo periodo feci pure l’esperienza di sindacalista alla Cisl, ma mi incuriosiva anche l’approccio della Cgil verso alcune tematiche sociali che riguardavano il femminile. Il periodo storico aiutava a formarsi una certa visione della vita. Attraverso il sindacato volevo difendere la dignità e i diritti delle donne.

In casa, però, la musica era differente.

Le regole non erano uguali per tutti. Pensi, in famiglia c’era una sola auto e la domenica era appannaggio dei miei fratelli più grandi: una domenica a testa. Ma quando io compii i 18 anni e presi la patente, sgranarono gli occhi quando chiesi: quand’è il mio turno? «Che c’entri tu con l’auto?», mi domandarono sbalorditi. Così, misi da parte un po’ di soldi e acquistai una Fiat 126: piccola ma utile per avere la mia indipendenza. Insomma, volevo rompere quello schema.

Una strada tutta in salita, insomma.

Beh, vivevamo in un paese, la mentalità era differente da quella della città. Ma frequentare il sindacato e altri gruppi impegnati nel sociale, mi ha aiutata a crescere. Un viaggio in India è stato il vero crocevia per colmare quel vuoto che sentivo dentro. Soprattutto l’esperienza a Benares, la città santa, mi ha fatto conoscere tanta gente di tutto il mondo che cercava un nuovo modo di vivere o comunque una ricerca interiore più approfondita. Lavorando in clinica, ho incontrato una suora Orsolina che prestava servizio e mi sono avvicinata a loro. All’inizio più come una sfida, non capivo il senso delle suore, il loro modo di vivere un po’ fuori dal mondo. Con il tempo le ho conosciute meglio, ho percepito uno stile di vicinanza e di promozione umana e integrale della donna che stava alla base della loro missione. E ho fatto una scelta, peraltro condivisa e sostenuta dai miei fratelli, senza dirlo ai miei genitori.

Ci spieghi, come ha fatto?

Sapevo che loro erano fortemente contrari, in particolare mia mamma che pensava di perdermi qualora fossi diventata suora. Ma non volevo vederli soffrire. Allora, prendendo un permesso sindacale, ho fatto un’esperienza un po’ più prolungata che mi ha confermata nella decisione. Una mattina, alle sei, sono uscita di soppiatto di casa, ho caricato nella mia auto poche cose e sono andata via, in silenzio. Mia madre, nel sentire il rumore del motore, è uscita di corsa e mi ha inseguita per un breve tratto. Io non mi sono voltata: sapevo che, se quel giorno mi fossi fermata, non sarei più ripartita. Avevo preso la mia decisione e sono andata dritta in convento dove, a ventinove anni, ho iniziato il mio cammino per diventare suora. Sentivo che era quello il mio posto. Tuttavia, ho provato tanto dolore. Il troppo amore, a volte, non lascia andare.

I suoi genitori l’hanno mai perdonata?

Avevamo visioni e sogni diversi rispetto alla vita. Non è stato facile, per nessuno di noi tre. Pensi, mia mamma non ha mai messo piede nelle comunità delle Orsoline in cui sono stata. Ma con lei c’è stata una sorta di riconciliazione silente. A un certo punto, infatti, le hanno diagnosticato l’Alzheimer, che ha iniziato a trasformarla giorno dopo giorno. I ruoli si sono invertiti, io sono diventata la madre e lei la figlia. A volte avvertivo delle vibrazioni: non mi chiamava per nome ma mi guardava e mi percepiva, a modo suo. È morta a 76 anni. Sì, ci siamo riconciliate. Mio padre è deceduto dieci mesi prima.

Da suora, lei ha aiutato centinaia di persone. Soprattutto donne. In tanti modi.

Ho cercato di gettare il cuore oltre l’ostacolo e liberare quelle donne intrappolate nell’inferno della tratta. Costrette alla vita di strada. Io, piccola di statura, ho tirato fuori tanta determinazione e mi sono aperta al mondo. Una donna albanese che seguiva i miei genitori, quando io ero già a Caserta, era una giovane uscita dalla strada e da me accolta. Si è presa cura di loro in una maniera straordinaria. Siamo diventate come sorelle, si è rifatta una vita, si è sposata. Ci vediamo quando possiamo, con lei e la sua famiglia.

Suor Rita Giaretta a Casa Rut (Caserta)

A Caserta lei ha fondato Casa Rut insieme ad alcune consorelle.

Negli anni Novanta, il nostro istituto aveva già aperto alcune missioni in Brasile e più tardi in Mozambico. Eravamo presenti a Crotone ma decidemmo di andare in un’altra città del Sud perché, nel territorio di Caserta, c’era una situazione complessa per la quale la nostra presenza poteva essere significativa. L’allora vescovo, Raffaele Nogaro, facilitò l’avvio della iniziativa. Comprendersi e ascoltarsi a vicenda, fu determinante per entrare in punta di piedi in quella terra ricca di bellezze ma anche di numerose problematiche. Tante ragazze straniere stavano in strada dalla mattina alla notte, ma non potevamo accontentarci della solita spiegazione, “è il lavoro più vecchio del mondo”. Non era una loro scelta, erano costrette a farlo. Alcune mostravano i segni delle percosse e delle sigarette spente sui loro corpi. Iniziammo ad aiutarne una. Promisi di tornare e lo feci. Lei si fidò di noi, poi ne seguirono molte altre: oltre 600.

Suor Rita e monsignor Raffaele Nogaro

Il racket della prostituzione l’ha mai minacciata?

No, devo essere sincera, non ci hanno mai torto un capello. A rischiare erano le ragazze.

Dopo qualche anno, però, Casa Rut non bastò più.

Nel 2004 costituimmo la cooperativa sociale NewHope (un laboratorio di sartoria etnica, ndr) per favorire il loro inserimento lavorativo e avviarle a una piena autonomia. L’assistenzialismo è una brutta bestia, non rimette in piedi e a testa alta le persone. Anzi, ci sono molte persone che approfittano dei bisogni di altri individui. Non bastava più la sola accoglienza, serviva un percorso di autentica liberazione. Altrimenti la criminalità organizzata sarebbe andata a riprenderle. NewHope significa “nuova speranza”, volevamo essere conseguenti e liberare quelle giovani donne, a volte minorenni, dal cappio che avevano al collo. La città ci ha fatto un po’ da scudo e protette. Inoltre, abbiamo coinvolto le istituzioni (tra cui la questura, il tribunale, il Comune e la Asl) e stipulato protocolli che hanno visto partecipare anche le scuole. È stato un lavoro lungo e impegnativo, ma ha dato i suoi frutti.

Donne al lavoro nella sartoria NewHope di Caserta

Frutti che le sono valsi numerosi riconoscimenti. Ne citi qualcuno, Suor Rita.

Mi limito a due: il titolo di Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2007) e la cittadinanza onoraria di Caserta. Sono molto legata a quella città, anche se dal 2019 risiedo a Roma dove, insieme ad una consorella, ho dato vita a Casa Magnificat (una comunità di donne, consacrate e laiche, in buona parte migranti e con figli piccoli, ndr).

Le sue parole d’ordine?

Diritti, giustizia, libertà. Da lì nasce tutto, a cominciare dal riconoscimento della dignità umana.

Aveva contribuito a mettere su la “Tenda della Pace”. Poi che cosa è accaduto?

C’è un tempo per tutto. È stata un’esperienza molto bella e significativa costruita con i Padri Sacramentini e numerosi laici e laiche nel periodo in cui imperversava la guerra del Golfo. Poi abbiamo seguito altre strade, ed è giusto così. Ma l’impegno e la preghiera per la pace non hanno mai trovato sosta.

Suor Rita Giaretta durante una manifestazione per la pace

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