Idee Esg e dintorni
La congenita inefficienza della Pubblica Amministrazione spiega perché lo statalismo fa male alla società
Più che l’applicazione di ricette manageriali serve un impegno organico e continuo per promuovere un approccio di servizio contro le tentazioni estrattive. Per aiutarci nel compito sono inevitabili e inderogabili una completa trasparenza e una maggiore partecipazione della società civile alle decisioni
Gran parte delle riforme della Pubblica Amministrazione si infrangono contro episodi e scandali che ne certificano l’inefficienza. Molto spesso non bastano le applicazioni di tecniche, strumenti e strategie che pure sembrano ragionevoli e perfettamente funzionanti nel settore privato, a partire dai premi di produttività. Sembra che la PA sia in grado di sabotare i tentativi di miglioramento. Può anche darsi che non sia solo questione delle modalità gestionale da rendere più efficienti: il problema sembra risiedere più in profondità.
È possibile applicare un paradigma molto semplice al lavoro pubblico, il sistema degli incentivi o dei deterrenti ai comportamenti virtuosi o opportunistici, per verificare come alcuni istituti fondamentali intervengano proprio come regolatori del meccanismo. Dato che il pesce puzza sempre dalla testa un primo punto di analisi è il sistema di governance, con una riflessione banale. Se il management apicale è scelto dalla politica, allora per la propria conservazione sarà incentivato ad adottare comportamenti in linea con i desideri della politica che lo ha nominato (per cooptazione o procedure a evidenza pubblica spesse volte molto poco trasparenti). La fedeltà sarà verso i gruppi di potere che hanno deciso l’incarico e non rivolta alla mission specifica dell’ente, per perseguire la quale a volte sarebbe necessario procedere in direzione contraria. Non solo: l’organizzazione sarà orientata a rispondere al giudizio (a rendere conto) solo alla parte politica o ai singoli decisori eletti che significativamente potranno decidere della continuità o del cambiamento nella governance. Per cui tutta l’azione dell’organizzazione sarà focalizzata a produrre risultati per una specifica e molto ristretta categoria di stakeholder (il governatore, il sindaco, l’assemblea consortile).
Chiunque conosca gli approcci multistakeholder o le prospettive Esg (in particolare per quanto riguarda proprio la G di governance) sa che questa condizione è fortemente perniciosa per l’organizzazione, soprattutto se pubblica e dunque orientata al bene comune: cosa accade se gli interessi di chi decide del manager non sono coerenti con gli interessi degli utenti o dei cittadini? Mettiamo anche gli interessi coincidano: il management avrà interesse comunque a manipolare i monitoraggi, a nascondere le evidenze negative e a concentrare le risorse per ottenere, sostenere e pubblicizzare solo quei risultati che sono più cari al decisore politico. Nei risultati delle policy non c’è mai l’imperio incontestabile del conto economico e i risultati si possono raccontare in molti modi. Tanto, diciamocelo, la parte politica il più delle volte non ha competenze e strumenti per andare a fondo ai dettagli gestionali. Pochi messaggi e molto chiari a chi deciderà il futuro destino del governo dell’organizzazione. In poche parole: marketing. L’organizzazione diventerà una grande macchina di marketing per un pubblico molto ristretto (spesso una sola persona: il sindaco). Una macchina di produzione di slogan e ostentazione di risultati eclatanti. Significa inoltre che il primo valore che andrà a perdersi sarà la trasparenza: meno cose si vengono a sapere meglio è, la comunicazione dall’interno verso l’esterno dovrà essere rigidamente controllata.
Una possibile barriera a questa dinamica è proprio la trasparenza e la partecipazione di molti stakeholder alle decisioni strategiche. Ora, sembra però che il sistema della PA scoraggi proprio questo. Il Codice di Comportamento dei Dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni all’art.11 comma 2 stabilisce che “il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione” e “tiene informato il dirigente dell’ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa”. La prescrizione è tanto vaga che nessun dipendente pubblico potrebbe arrischiarsi a denunciare pubblicamente le cose che non vanno senza rischiare sanzioni. Forse allora l’unica vera strada da percorrere è introdurre meccanismi di decisione partecipata, come il Bilancio Partecipativo di Porto Alegre, o l’introduzione di diversi soggetti nelle aziende speciali consortili, come nell’esperienza del Consorzio Consolida di Lecco.
E poi: perché mai un dirigente dovrebbe premiare un dipendente che promuova idee orientate a modificare i processi in logica di migliore efficienza o innovazione? Deve per forza di cose tacitarlo. Infatti tali idee metterebbero in luce proprio le inefficienze, che il dirigente non aveva visto e aveva tollerato. Le innovazioni potrebbero secondo un principio di distruzione creatrice mettere a rischio tutta l’organizzazione magari pensata e decisa proprio dal dirigente, certificandone i limiti o addirittura il danno provocato, con tutte le conseguenze nefaste da corte dei conti e responsabilità personale disciplinare e contabile. Meglio insabbiare.
Dato che le progressioni verticali, così come le nomine a figure dirigenziali, di fatto sono decisioni discrezionali di chi detiene il controllo, allora il comportamento che dà maggiori garanzie di successo in queste organizzazioni non può che essere la lealtà al capo, con tutte le conseguenze molto note in letteratura di camera dell’eco e yesman. Le progressioni di carriera non saranno determinate dalla capacità di individuare problemi e dare soluzioni nuove, e neppure da una capacità disruptive di reinquadrare i problemi o di ristrutturazione cognitiva (la capacità di pensare fuori dagli schemi), che anzi saranno per lo più viste come patologie e come pericoli per la conservazione del top management. L’innovazione non può che calare dall’alto.
Se l’unica innovazione possibile è quella pensata e decisa dal management apicale, allora la capacità di innovazione e miglioramento in senso di maggiore efficienza è gravemente compromessa, come già sapevano Hayek con il suo concetto di “fallacia animistica” (i fenomeni economici sono complessi e trovano la loro forma tramite aggiustamenti spontanei dal basso, dunque dare forma alle organizzazioni tramite forme di ingegneria organizzativa senza possibilità di feed back si rivelano nel lungo termine fallimentari) e le occasioni di “distruzione creatrice” alla Shumpeter completamente scongiurate.
Da questa iniziale prima analisi è evidente come il dipendente pubblico abbia poca o nulla possibilità di intervenire con le proprie intuizioni e la propria competenza a migliorare le cose e a definire le regole dell’organizzazioni, con un enorme spreco di talento ed energie (dato che tutti quanti siamo soliti arrovellarci su come cambiare le cose nei nostri contesti organizzativi e produttivi). Questo freno all’iniziativa individuale è causa di un atteggiamento che rappresenta il vero nemico di ogni azienda che voglia produrre risultati veri: la rassegnazione. Se non trovo nel lavoro la possibilità di esprimere me stesso e migliorare le cose allora cerco gratificazione altrove. Forse dovremmo iniziare a interrogarci sulle ragioni della disaffezione al lavoro nelle pubbliche amministrazioni da parte delle giovani generazioni, non fermandoci all’incontestabile problema salariale, ma indagando i sistemi di governance e di presa di decisione.
Forse dovremmo iniziare a interrogarci sulle ragioni della disaffezione al lavoro nelle pubbliche amministrazioni da parte delle giovani generazioni, non fermandoci all’incontestabile problema salariale, ma indagando i sistemi di governance e di presa di decisione
Da questi assunti è probabile che il problema sia ancora più in profondità: il meccanismo istituzionale è pensato per una classe politica intesa come portavoce degli interessi collettivi, essenzialmente interessata a promuovere governance partecipativa, e come organo con la responsabilità di garantire che la PA persegua interessi generali e non invece di ristretti gruppi di potere o peggio dei singoli manager. In fin dei conti alzare lo sguardo alla politica ci mette di fronte ad alternative analoghe: una politica di servizio e una politica di poltrone. C’è una “ferrea legge dell’oligarchia” che premia nelle posizioni di potere sempre le stesse famiglie e gli stessi circoli relazionali, anche in Italia, tra imprese e istituzioni. L’approccio “estrattivo” per dirla con Acemoglu e Robinson permea tutti i livelli di governance con una penetrazione tentacolare. Probabilmente chi si accorge di queste dinamiche deve assumersi la responsabilità di opporvisi.
Sono inevitabili e inderogabili una completa trasparenza e una maggiore partecipazione della società civile alle decisioni
Per una PA efficiente sembra necessario, più che l’applicazione di ricette manageriali, un impegno organico e continuo per promuovere un approccio di servizio contro le tentazioni estrattive. Per aiutarci nel compito sono inevitabili e inderogabili una completa trasparenza e una maggiore partecipazione della società civile alle decisioni.
Foto Wikipedia: Torre di Babele, dipinto di Pieter Bruegel del 1563
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