La città degli angeli è in fiamme. Tutti stiamo assistendo a questo pezzo di apocalisse che tradisce l’immaginario sul mito dell’eterea California: terre bruciate, morte e devastazione da Santa Monica, a Malibù, a Pasadena, nomi che il cinema ha reso noti ed eterni e che, in questi giorni, ci portano dentro un incubo dove la natura pare sempre più matrigna.
Abbiamo chiesto a Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano, autore e comunicatore scientifico, cosa “diavolo” (è il caso di dirlo), stia succedendo in quel pezzo di terra tanto ricca e oggi tanto affranta.
Siamo a nove focolai, cosa succede?
In California è molto frequente che gli incendi partano o da scintille o da linee elettriche delle ferrovie. Sono territori dove ci sono grandi estensioni boschive e spesso elettrodotti o ferrovie passano in aree dove non si può fare una sorveglianza antincendio costante, non ci sono paesini o case per ogni chilometro, come siamo abituati noi in Italia; quindi, se parte un incendio in questi luoghi remoti prima di vederlo l’incendio spesso è già partito e rischia di superare quella soglia oltre il quale diventa difficile da spegnere.
Cosa ha portato a questa devastazione, tra l’accensione e la diffusione dell’incendio?
Quello che rende il fuoco davvero pericoloso è che possa correre veloce e che raggiunga aree abitate, indipendentemente da chi o cosa lo accende, questa pericolosità si ha quando la vegetazione è molto secca e abbondante quindi c’è tanta materia infiammabile che può prendere fuoco, questa è la situazione in cui si trova la California, in particolare quella meridionale, dopo non solo un anno molto secco, ma addirittura, dopo l’alternanza di un anno umido, nel 2023 è piovuto molto, poi il 2024 di nuovo secco quindi la vegetazione che è cresciuta, è diventata facilmente infiammabile e questa alternanza ha proprio creato, diciamo la benzina necessaria perché qualsiasi scintilla, volontaria o involontaria, sia diventata un fuoco molto vasto. Ormai ci sono nove diversi focolai, dal più grande al più piccolo, che sta a significare che qualsiasi scintilla è diventata un incendio.
Possiamo parlare anche in questa occasione di cambiamento climatico?
Possiamo e dobbiamo. Ci sono due elementi che stanno spingendo gli incendi: uno è la siccità e l’abbondanza di vegetazione secca, l’altro riguarda i venti. Questi venti caldi di Santa Ana che sono un po’ simili al nostro Foehn, che sono normali per questa stagione anche se più intensi del solito, anche se sul vento non possiamo dire niente a riguardo dell’effetto sul cambiamento climatico, perché non abbiamo studi o prove che il vento aumenti: abbiamo però molte prove le siccità siano aumentate molto: 15 dei 20 incendi più gravi in California sono avvenuti negli ultimi 10 anni quindi questa frequenza e lunghezza delle siccità è già aumentata come diretta conseguenza del riscaldamento globale: in alcuni punti più che in altri la California come il Mediterraneo sono due di questi, quindi possiamo dire che la siccità è intensificata dal cambiamento climatico, super caricata.
E l’azione umana?
Poiché non ci sono state tempeste che possono aver causato fulmini, le cause di accensione saranno indubbiamente non naturali. Poi da lì a dire che siano volontarie o no, ce ne passa, possono essere accidentali, dovute ad attività umane che generano scintille, come dicevamo prima. Lo è stato anche per un altro grosso incendio in California, quello di Paradise del 2016 che ha raso al suolo la città e anche lì era stato causato da una linea elettrica, tanto che la compagnia elettrica andò poi in banca rotta per pagare i risarcimenti dovuti alle persone che persero la casa.
Perché non riescono ad arginare le fiamme?
Perché il fuoco non è un fenomeno lineare. È come chiedere perché non si riesce ad arginare un’alluvione. La forza di questi fenomeni magari sull’acqua ce l’abbiamo più chiaro, del fuoco pensiamo che si possa sempre spegnere ma non è così. Se supera una certa intensità non riesci ad avvicinarti e neanche l’acqua lanciata dai Canadair riesce: intanto se c’è vento i Canadair non riescono a volare ed è quello che sta succedendo in California, non riescono a farli alzare in volo e poi anche se volassero, questi lanci di acqua, fanno solo il solletico. Se il fuoco è intenso e sprigiona energie molto forti perché c’è tanta benzina da consumare, nel senso che c’è tanta materia vegetale anche quell’acqua non riuscirà a fermarlo. Il fuoco non è sempre spegnibile con l’acqua, come potremmo fare nel nostro camino… Ci sono poi problemi di salute pubblica per i fumi, per le emissioni, l’inquinamento dell’aria che questi incendi provocano che in un’area urbana peggiora moltissimo la salute.
Per non parlare del disastro ecologico in atto, la morte flora e fauna ma, al di là dell’onda emotiva e l’impressione che fanno le immagini che vediamo, su cosa dobbiamo tenere gli occhi puntati in questa vicenda?
Due cose non si sentono abbastanza: la prima proprio sul comportamento di questi incendi; c’è stato un articolo scientifico pubblicato un paio di mesi fa che ha puntato l’attenzione su questi incendi “veloci”, detti fast fires: quando le condizioni meteo sono particolarmente sfavorevoli come in questo caso, con fortissimi venti e siccità, l’incendio corre e corre a una velocità che ci trova impreparati, soprattutto se entra nelle comunità urbane o periurbane a volte non lascia neanche il tempo di capire cosa sta succedendo, né di evacuare, leggo di molti che sono rimasti intrappolati nelle loro case, non sono riusciti ad andare via, leggo di dieci vittime… con incendi molto veloci è difficile trovare scampo o organizzarsi. La velocità delle fiamme noi non ce la immaginiamo ma può essere quello che in questo caso è il problema. La seconda cosa di cui si parla poco è in merito agli effetti: soprattutto in questi giorni, si parla molto della villa di Paris Hilton, di Billy Cristal e vediamo che la crisi climatica colpisce anche le persone ricche, ma dall’altra parte colpisce molto, molto, molto più gravemente le persone povere di cui nessuno sta parlando. E ci sono tanti studi che fanno vedere come l’impatto degli incendi aumenti le disuguaglianze economiche perché questi personaggi, potranno ricostruire le loro case perché hanno fior di assicurazioni invece, ci sono molte persone che non hanno soldi e risorse per ricostruire e hanno perso tutto e basta, soprattutto in una società come quella americana dove la rete diciamo socioassistenziale ha grossi buchi per queste persone. Quindi c’è anche un aspetto sociale, di impatto sulla società per persone che non hanno risorse e se la passeranno sempre peggio, questi eventi estremi rischiano di allargare le disuguaglianze.
C’è una metafora in tutto questo? L’America ricca, quella dei sogni, del cinema di Sunset Boulevard…
C’è in atto una profonda ingiustizia per queste persone povere di cui nessuno parla. Gli incendi sono veloci, senz’altro pericolosi ma diciamo non sono incendi enormi, come superficie, per gli standard americani, sono diventati così dannosi perché sono molto vicini o dentro le aree edificate e qua c’è lo stesso discorso da fare come per noi quando c’è una alluvione: dove si è costruito? Dove sta avvenendo l’espansione delle periferie urbane. Tutti vogliono stare a contatto col verde, con la vegetazione ma bisogna cominciare a rendersi conto dei possibili pericoli che il territorio offre in un clima diverso da quello a cui siamo abituati. Questo vale per le zone inondabili come per quelle infiammabili.
Che cosa c’è da imparare da questo incendio, qual è la lezione che potremmo accogliere?
Per primo questo che abbiamo appena detto: dove andare ad abitare. Per le zone nuove almeno, bisogna davvero considerare i possibili ritirarsi climatici che fino ad ora non conoscevamo o erano meno intensi perché il clima era meno estremo. Chi compra e chi vende deve capire il contesto ambientale, cominciare a conoscere il territorio per esse più preparati. In secondo luogo, capire che con questi eventi estremi, c’è un limite all’adattamento. Le due grandi strategie per lottare contro la crisi climatica sono la mitigazione e l’adattamento, cioè, agiamo sulle cause – l’emissione di anidride carbonica – oppure diamo per scontato che la situazione ormai è compromessa e cerchiamo di adattarci, ma l’adattamento ha un limite: diventa impossibile o troppo costoso quando i fenomeni sono troppo forti, non ci si può adattare all’infinito.
E quindi?
Ancora di più non dobbiamo interrompere la lotta alle emissioni, anzi insistere, velocizzarne la riduzione, perché contro certi eventi estremi non c’è adattamento che tenga che tu sia miliardario o povero. È meglio agire sulle cause.
Ma oggi ci rendiamo conto che la natura è più forte? Dobbiamo andare a chiederlo ai Greci che, invece, ce lo avevano ben chiaro?
Nelle nostre società urbane, da almeno due secoli, se non di più ci siamo sentiti più liberi e affrancati dalla natura, soprattutto nelle città che sono interamente progettate e costruite, sembra che tutto sia sotto controllo. Poi, un po’ come si racconta nel Candide di Voltaire, il terremoto di Lisbona ci dà la sveglia, non solo sull’esistenza di una natura che sfugge al nostro controllo, ma sulla necessità anche di capire in una città, il contesto in cui siamo inseriti e soprattutto di non peggiorarlo perché, se certi fenomeni avvengono ugualmente, è chiaro che li stiamo rendendo noi, più intensi, più frequenti e più pericolosi con le emissioni. Da una parte dobbiamo ricordarci di chi è veramente la natura e dall’altra dobbiamo considerare le nostre azioni che hanno conseguenza su noi stessi, anche dal punto di vista economico: è meno costoso fare la transizione energetica o riparare tutti questi danni?
Sul cambiamento climatico, anche se piano piano ce ne stiamo convincendo, prevale un atteggiamento disfattista, allarmista o spaventato.
Si nega per paura di accettare la conseguenza. L’allarme va bene, l’allarmismo no perché paralizza ma ci sono delle ottime notizie, non lo dico io, lo dice l’Ippc, l’organismo dell’Onu che si occupa dei cambiamenti climatici nel suo ultimo rapporto: abbiamo tutte le conoscenze e addirittura tutte le risorse economiche per risolvere il problema climatico, e arrivare a stare sotto un grado e mezzo di temperatura come si è deciso a Parigi nel 2015. Quindi non è un problema né scientifico, né di mancanza di idee e nemmeno di mancanza di soldi. È un problema di come di decide di spendere e di usare i soldi che ci sono, quindi di politiche pubbliche, è ora che si inizi a parlare delle soluzioni. Un dibattito è certamente necessario su come arrivare a capire quali sono i posti di lavoro a rischio nella transizione, come guidare una transizione che sia equa, difendendo certi settori industriali, certe nazioni, certi interessi economici, però bisogna fare i conti bene e appunto vedere cosa c’è sul piatto della bilancia dei costi della transizione, ma non dimenticarsi sul piatto della bilancia, dei costi della non-transizione!
E noi in Italia come siamo messi a foreste e incendi?
Solo il 15% delle foreste in Italia ha un piano di gestione e quindi un piano antincendio. L’incendio va spento prima di che nasca. Questo si fa con la conoscenza del territorio, con dei piani che coinvolgano tutte le foreste, e che vi sia una presa di responsabilità di ciascuno nei confronti del territorio. SI può convivere con la natura, ma occorre conoscerla. Dobbiamo investire in conoscenza del territorio.
Però siamo bravi a promuovere e a parlare di una cultura ecologica…
Sì, ma ancora è troppo individualista, ci diciamo: «Calcola la tua impronta ecologica e fai qualcosa per ridurla», «compra un ettaro di foresta in Costarica, così ti compensi le emissioni del tuo volo aereo», ma non può essere un fatto individuale! Dobbiamo fare in modo che tutti quelli che volano si comprino un ettaro di terra o fare in modo che il sistema dei trasporti offra alternative migliori, come la sostituzione dei voli a breve raggio con un sistema ferroviario efficace? Dobbiamo aspettare che tutto abbiano i soldi per comprare auto elettriche? Non c’è tempo, cambiamo il sistema di mercato delle auto, più attenzione ai cambiamenti sistemici e un po’ meno personalizzazione dell’impatto climatico: la sensibilità ecologica deve fare questo passo.
Foto in apertura di AP Photo/Eric Thayer/LaPresse.
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