Suor Anna Cogoni

«Io, Figlia della Carità ma anche figlia del ’68»

di Luigi Alfonso

Una donna che ha preso i voti nel 1973 e, da allora, non si è mai fermata. Un percorso di impegno sociale, fatto di battaglie quotidiane contro le ingiustizie e la povertà. Ha ancora un sogno nel cassetto: aprire una struttura per ex carcerate con bambini al seguito

Dolce e risoluta. Suor Anna Cogoni sembra il ritratto perfetto della religiosa evocata da Papa Francesco nei giorni scorsi. Una suora di 76 anni che, negli anni Settanta, venne etichettata come ribelle dalle sue superiori. «Non ho mai sopportato le ingiustizie e le ho combattute senza tentennamenti, sin da bambina», spiega lei. «Il voto dell’obbedienza è stato il più difficile da rispettare, lo riconosco». Originaria di Aritzo (Nuoro) ma cagliaritana di adozione, è considerata la suora simbolo dell’impegno sociale in Sardegna. Non a caso, negli ultimi anni, ha ricevuto due premi: uno, “Donna e Lavoro”, nel 2023 (dalla Regione Sardegna) alla presenza della ministra Marina Elvira Calderone; il secondo dal Comune di Quartu Sant’Elena (Cagliari).

Suor Anna, ci racconta com’è nata la sua vocazione?

Già da bambina, nel mio paese, vedevo delle ingiustizie insopportabili. Appartenevo a una famiglia numerosa, con ben 13 figli. Mio padre, per dare da mangiare a tutti, sgobbava come un matto: prima aveva fatto il fattore, poi era stato assunto da un’impresa edile. Un giorno mi recai in cantiere per portargli il pranzo: vidi lui e gli altri operai lavorare in condizioni di palese sfruttamento, guardati a vista per dodici ore al giorno e pure sottopagati. Non potevano neppure sollevare la testa, per non distrarsi. Era una situazione disumana. Quel giorno mi dissi: da grande voglio combattere contro tutte le ingiustizie.

Prima completò gli studi.

Sì, ma una volta diplomata alle magistrali, non seguii le mie compagne che trovarono facilmente posto a scuola. Non volli insegnare, ma ancora non sapevo che cosa fare. Poi conobbi le Figlie della Carità e compresi che potevo seguire Dio senza trascurare l’Uomo. Nel 1968 entrai in convento come novizia. La mia famiglia non fu contenta di questa scelta, ma non riuscirono a fermarmi. Nel 1973 presi i voti.

La Compagnia delle Figlie della Carità fu fondata da San Vincenzo de’ Paoli il 29 novembre 1633. Da allora, la missione è rimasta inalterata.

I tempi ovviamente sono cambiati ma i problemi sono in buona parte gli stessi, nonostante il progresso. San Vincenzo, da buon guascone francese, amava dire: «Le suore devono avere per cella la strada». Cioè, non si deve restare dentro i conventi bensì bisogna aprirsi al mondo, alla società reale. Ecco perché ho fatto questa scelta e perché io e le mie consorelle cagliaritane abbiamo deciso di abitare in un normale condominio, insieme a tante famiglie. San Vincenzo è stato un autentico profeta, per quei tempi, e il suo messaggio è sempre di grande attualità. Ovviamente, c’è voluto un cambio di passo dalle Donne della Carità, che erano delle volontarie, all’istituzione della comunità religiosa.

Suor Anna Cogoni nella cappella della casa delle Figlie della Carità, a Cagliari

Così iniziò il suo percorso distante da casa.

Mi inviarono a Olbia, nella speranza di domare il mio carattere ribelle. Ma lì scesi in piazza con i bambini delle scuole elementari di una borgata, per chiedere la realizzazione dell’impianto fognario. Era una vergogna, mi sembrò giusto schierarmi apertamente per una giusta causa. Ma quei comportamenti non piacquero alla superiora, e dopo tre anni fui trasferita a Sassari. Lì le cose non cambiarono, in verità, ma nel frattempo conobbi un bravo direttore spirituale che mi aiutò a canalizzare meglio il mio impegno. In fondo, in quei tempi, il nostro era un ambiente molto conservatore, dunque certi gesti non erano graditi. Nel 1979 arrivai a Cagliari e incontrai una Visitatrice (l’equivalente della Madre Provinciale, ndr) molto ferrea ma illuminata. Volle vedermi all’opera. Poi, un giorno mi confidò: «Non è tutto vero ciò che dicono di te». In fondo, è vero che sono una Figlia della Carità, ma sono pur sempre una figlia del Sessantotto. Ho respirato a pieni polmoni l’aria di ribellione di quel periodo.

Nel capoluogo sardo ha iniziato subito a darsi da fare.

Ho iniziato a combattere la dispersione scolastica agli inizi degli anni ’80, nei quartieri più poveri e degradati della città. I bambini avevano bisogno di studiare, non di catechismo, così ci impegnammo per aprire una scuola elementare. Dal primo anno, coinvolgemmo 40 bambini e ragazzi poveri che la scuola pubblica non voleva, perché erano delinquentelli. Eppure, erano vivaci e intelligenti, infatti arrivarono tutti a conseguire per lo meno la licenza media. E lo stesso accadde anche negli anni a seguire. Ma, arrivati al termine degli studi, solitamente non volevano tornare in famiglia e neppure finire di nuovo per strada: sapevano che sarebbe andata a finire male. Così nacque la nostra prima Casa Famiglia per ragazzi. Fummo tra le prime a organizzare i corsi d’informatica, cui seguirono quelli di giardinaggio e per disinfestatori. Cercavamo di dare delle concrete prospettive di lavoro. Devo però riconoscere che ho avuto la fortuna di avere sempre dei bravi volontari laici che mi hanno aiutata moltissimo. Non ci siamo mai limitate a cercare braccia e menti all’interno della nostra comunità.

Lei è la responsabile delle opere per minori, donne vittime di violenza, papà separati. Non le mancano di certo gli impegni.

Abbiamo aperto pure uno sportello contro tutte le violenze. Che, per quanto possa sembrare strano, riguardano anche vittime di sesso maschile. Solo che la maggior parte di questi uomini, per pudore o vergogna, non lo ammette. Ma prima ci siamo occupate delle donne, che sono certamente di più. Una notte, verso le due, bussò alla nostra porta una donna piuttosto giovane. Era scappata di casa, stanca dei maltrattamenti del marito. Erano i primi anni ’90: da allora abbiamo aiutato centinaia di donne.

Quando aprì la prima comunità per papà separati?

Non molto tempo dopo. Nacque tutto un po’ per caso, il giorno che incontrai alla stazione dei treni due bambini che passeggiavano da soli. Chiesi loro se si fossero smarriti, ma mi indicarono il padre. Mi dissero che dormivano lì perché non sapevano dove andare. Mi avvicinai al loro genitore e lo invitai a visitare la nostra Casa Famiglia. Pensavo ai figli, naturalmente. Ma quando lui venne a trovarci la sera dopo, e decise di affidarmi i bimbi, mi disse: «E io?». Capii che non potevamo disinteressarci di lui. Mi raccontò delle violenze subite da parte della moglie, che nel frattempo era andata via. Insomma, dovevamo rispondere a un bisogno sociale che oggi è ancora più presente rispetto al passato. Mi rivolsi al prefetto di allora, il quale a sua volta riuscì a ottenere dal Comune un bene confiscato alla criminalità organizzata. Allora fu abbastanza semplice, le assegnazioni non avvenivano ancora attraverso il bando nazionale dell’Agenzia preposta. Lo rimettemmo a posto ed è ancora funzionante. Ora siamo alla ricerca di una nuova struttura, proprio perché le domande sono in forte aumento. Sa quanti uomini dormono in auto, per strada, perché non hanno i soldi sufficienti per vivere e pagare l’assegno mensile di mantenimento dell’ex moglie e dei figli?

Ha ancora qualche sogno nel cassetto?

Sì, uno che vorrei vedere esaudito prima di morire: aprire una struttura destinata alle donne che escono dal carcere e hanno uno o più figli a carico. Abbandonate da tutti e senza una prospettiva. Spero di riuscirci.

Come ha reagito alla nomina di Suor Simona Brambilla, prima donna prefetto in Vaticano?

Con gioia. Questa notizia mi ha trasmesso la speranza che qualcosa possa cambiare all’interno della Chiesa universale. Papa Francesco sta cercando di innovarla, ma non è semplice: quello religioso, da sempre, è un ambiente maschilista. Anche nelle diocesi, senza arrivare al Vaticano, le donne sono molto marginali. Per fortuna non mancano le dovute eccezioni. L’arcivescovo di Cagliari, monsignor Giuseppe Baturi, mostra grande umanità. Ogni mese viene a pranzo dai nostri ragazzi, che lo vedono come un padre perché con loro è molto tenero e attento.

Aumenta l’impegno ma diminuiscono le vocazioni.

Tra le Figlie della Carità, in tutta l’Italia, ne abbiamo avuto soltanto una negli ultimi mesi. Siamo in tutto 700 circa. Pensi che, quando presi i voti, soltanto nella mia Sardegna si contavano più di mille suore. Di questo si dovrà tenere conto, se vogliamo avere una Chiesa al passo con i tempi.

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