Occupazione

Workers buyout: il giro d’Italia delle aziende salvate dai lavoratori

di Francesco Dente e Matteo Riva

L'Emilia Romagna è la regione con più casi di successo, seguita dall'Umbria e dalla Sicilia. Il settore più rappresentato è invece la manifattura. Andrea Cori, analista economico presso il Centro Studi Legacoop: «Le imprese rilevate dai lavoratori hanno in media una longevità maggiore delle imprese italiane»

Le donne e gli uomini che fecero l’impresa. Anzi, che la rifecero. Perché riuscirono a farla nascere una seconda volta dopo che era morta o era lì per tirare le cuoia. Lanciando oltre l’ostacolo il cuore, se stessi, i pochi risparmi, il futuro delle famiglie. Sono i dipendenti che salvano dalla crisi l’azienda in cui lavorano conservando così lo stipendio, le competenze, i clienti. Un’operazione al limite del possibile che il linguaggio anglosassone dell’economia chiama workers buyout. L’acquisizione da parte dei lavoratori, appunto. Finora ha permesso di strappare al precipizio aziende già fallite o sull’orlo del baratro ma rappresenta un’opportunità anche per le imprese che affrontano il ricambio generazionale. Le imprese che non hanno successori perché i figli non se la sentono di continuare, vogliono fare altro nella vita o, semplicemente, non ci sono. The European House-Ambrosetti ha dedicato al tema un libro bianco dal titolo L’impatto economico e sociale dei Workers Buyout in Italia realizzato in collaborazione Amundi Sgr, Coopfond e Teha Group. VITA ha esaminato lo studio con Andrea Cori, analista economico presso il Centro Studi Legacoop e membro del gruppo di lavoro dell’indagine. 

Come si salva una azienda in crisi. Un processo in sei mosse

Come si preserva l’occupazione e si garantisce la continuità del ciclo produttivo di un’azienda in difficoltà, specie in una congiuntura segnata da riduzione del Pil, aumento della disoccupazione in alcuni settori, declino industriale? Sono sei, in estrema sintesi, le fasi del percorso che porta al passaggio del testimone dal vecchio proprietario ai lavoratori. Sono proprio loro, i dipendenti, a dare l’impulso nel momento in cui alcuni (o tutti) iniziano ad accarezzare l’obiettivo di acquisire il patrimonio dell’azienda. «La legge “Marcora” (n.49 del 1985, n.d.r.), che per prima ha disciplinato il workers buyout, prevede che i lavoratori possano ritirare in anticipo tutto il loro sussidio di disoccupazione e investirlo nel capitale della nuova cooperativa. Altrettanto vale per il trattamento di fine rapporto. Di fatto sono risorse loro, destinate a loro. Ma non basta: serve sempre l’apporto di altri soggetti esterni», spiega Cori. Il secondo step vede infatti l’intervento degli investitori istituzionali come ad esempio Cooperazione finanza impresa (Cfi), il fondo partecipato dal Ministero dell’Impresa, o i fondi esterni o mutualistici. Terzo step: i lavoratori interessati costituiscono una nuova società cooperativa. Quarto: provano ad attrare nuove risorse. Gli ultimi due passaggi, infine, prevedono che la nuova cooperativa prenda in locazione il ramo o l’intera azienda secondo la formula del rent to buy (affitto con riscatto) e in un secondo momento proceda all’acquisizione dell’azienda dalla società di provenienza.

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