Formazione

Che vergogna chiamarli clandestini

Di fronte al dolore e alla sofferenza parliamo di “clandestini”, come fosse una parola neutra che descrive la condizione di chi si trova illegalmente a bordo.

di Fabrizio Tonello

Una decina d?anni fa, la Yeshiva University organizzò un convegno sul tema del silenzio della stampa mondiale durante lo sterminio degli ebrei. I risultati vennero raccolti in un volume di 666 pagine intitolato Why Didn?t The Press Shout?, Perché la stampa non ha lanciato un urlo di orrore? La risposta che emergeva tra le righe era che la diffidenza verso le vittime, l?egoismo, la pigrizia furono sufficienti per decidere d?ignorare la tragedia. Per tutto agosto sono arrivati a Lampedusa barconi carichi di un?umanità dolente, in fuga da guerra e carestia, talvolta da deliberati tentativi di sterminio come nel caso dei profughi del Sudan. Abbiamo visto i volti di una giovane coppia che tentava d?arrivare sulle nostre coste per dare una speranza al figlioletto di 12 mesi. Avevano dovuto adagiarne il corpicino senza vita tra le onde durante la traversata. Giornali e telegiornali hanno parlato di ?clandestini?. Qualcuno ha chiesto di «agire con decisione», altri di prendere a cannonate le «navi dei trafficanti». Nessuno, tranne l?Unità e il manifesto, si è scandalizzato del fatto che i genitori di quel bambino africano siano stati messi in un carcere, pudicamente definito Centro di permanenza temporanea. Forse è venuto il momento di chiedersi se i giornali italiani del 2004 sono veramente migliori di quelli del ?42, se i nostri quotidiani pluriaccessoriati di libri, musica e film siano davvero meglio del mussoliniano La difesa della razza, se la Padania sia migliore del nazista Völkischer Beobachter. Di fronte al dolore e alla sofferenza parliamo di ?clandestini?, come fosse una parola neutra che descrive la condizione di chi si trova illegalmente a bordo. Ma ?a bordo? di cosa? Siamo un transatlantico di lusso, che non può ammettere passeggeri senza biglietto? L?Italia non ha più posto? Chi parla di clandestini, anziché di profughi, rifugiati e persone bisognose d?assistenza, dice in realtà «La barca è piena». C?è già stato un paese che pensava questo di sè, la Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. C?è già stato un ministro che non vedeva nulla di male nel rispedire gli ebrei nelle mani delle SS: il suo nome era Eduard von Steiger, consigliere federale svizzero responsabile della politica dei rifugiati. Quelli che non avevano i documenti in regola venivano rimandati da dove venivano: ciò che succedeva dopo non era affar suo. Il solo uso della parola clandestini trasforma la realtà: il problema non è più soccorrere chi sta per annegare, non è più guardare in faccia la nostra coscienza e chiederci se possiamo tollerare uno sterminio sotto i nostri occhi. No, il problema diventa accertare se gli intrusi abbiano pagato il biglietto, se gli ebrei in fuga dai nazisti abbiano i documenti in regola, con il timbro Jude sul passaporto. ?Clandestino? evoca la furberia, la segretezza, l?inganno. C?è qualcosa di viscido, di losco in una persona che si nasconde nella stiva di un bastimento dove non sarebbe autorizzato a stare. Ma si dimentica che i gommoni al largo di Lampedusa trasportano esseri umani in pericolo e che le leggi del mare esigono di prestare assistenza ai naufraghi. Al convegno della Yeshiva un famoso giornalista americano, Marvin Kalb, si era chiesto: «Cosa sarebbe accaduto se ci fossero stati la Cnn, i satelliti, i fax negli anni Trenta? Il popolo tedesco avrebbe eletto Hitler come cancelliere?». La sua implicita risposta era che sarebbe stato impossibile, che le pressioni internazionali avrebbero impedito la Shoah. Kalb si sbagliava: è sufficiente ribattezzare i profughi con un altro nome per cancellarli dalla nostra mente. Le immagini di sofferenza trasmesse in diretta ci conciliano il sonno: in fondo si tratta soltanto di clandestini.


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