Persone
Stefano Massini: «Vi racconto il mio amico Francesco»
Francesco Cicchi, fondatore della comunità Ama Aquilone, è scomparso l'11 luglio scorso ma la sua memoria - di imprenditore sociale e filosofo, di uomo generosissimo - è più viva che mai. Stefano Massini, attore e drammaturgo, che per due volte fu protagonista del festival organizzato dalla comunità, ha voluto ripercorrere la loro amicizia
Francesco Cicchi aveva un aspetto che mi colpiva: credeva davvero che la cultura fosse importante per la vita di tutti i giorni, compresa la vita di chi si trovava a dover affrontare la battaglia per uscire dalle dipendenze». Così Stefano Massini, scrittore, drammaturgo, volto televisivo (e autore e conduce su Rai3 la trasmissione Riserva indiana), ricorda la figura del fondatore della comunità Ama Aquilone, scomparso l’11 luglio scorso. Alla figura di Cicchi è stato dedicato il nuovo numero di Itaca, la rivista di riflessione e approfondimento che la comunità pubblica. Massini, che per due volte è stato protagonista dell’appuntamento estivo di Ama Festival, è stato intervistato sulla sua amicizia con Francesco Cicchi.
Vi univa una passione per la cultura come avventura di vita. È così?
Gli incontri con lui erano sempre molto belli, percepivi subito una convergenza di intenti. Quando arrivavi ad Ama respiravi il senso di una cultura viva non ostaggio del mondo asfittico dell’arte con le sue piccole ambizioni. È stato un rapporto di grande stima e di fiducia reciproca. A questo proposito ricordo che una volta parlando con lui mi aveva raccontato la storia di una ragazza che era nella comunità dove veniva accolte mamme tossicodipendenti con i loro bambini. Quella storia mi aveva colpito molto anche perché quella ragazza era toscana come me. Gli chiesi di poterne parlare nello spazio tv che allora aveva e fu molto felice di come venne raccontata quella storia.
Negli spettacoli portati al Festival lei ha sempre tenuto conto del titolo dell’edizione di quell’anno. Concordava con lui qualche tema da raccontare?
No, mi ha sempre lasciato libero anche perché tra noi s’era stabilita una sintonia immediata. Ricordo però che una volta prima di cominciare lo spettacolo gli dissi che avrei voluto raccontare di una lettera che avevo ricevuto da un ragazzo tossicodipendente. Lui mi aveva guardato in modo un po’ perplesso e capii che quella mia idea era fuori luogo. Poi mi spiegò che da me si aspettava un racconto del mondo che aprisse i confini della vita di una comunità, che portasse il mondo lì dentro, non che parlasse di un argomento che veniva percepito come interno. Aveva ragione lui!
Che esperienza è stata per lei recitare sul palco di Casa Ama?
Mi colpiva che quei momenti fossero aperti a tutti e diventano dei punti di emozione e di riflessione per tutto il contesto sociale che vive in quel territorio. La comunità diventava un luogo normale dove si sviluppavano riflessioni che riguardavano e emozionavano tutti. Per me è stata una cosa molto emozionante. Capivo che la mia funzione era quella di dimostrare che la comunità non era luogo di segregazione e che il percorso terapeutico si nutriva di questo continuo contatto con il mondo, a partire dalla bellezza del contesto in cui ci si trovava.
Il suo è un teatro di parola. Anche per Francesco la parola aveva una funzione fondamentale. È un altro punto di convergenza tra di voi?
Certamente. Del resto prendersi cura degli altri è scegliere le parole, il più grande rischio che corriamo è quello di usare parole preconfezionate, luoghi comuni, verità di cui ci si serve sapendo che verranno condivise. Don Milani sosteneva la stessa cosa, quando prendeva i figli di operai e contadini e voleva offrirgli un’educazione di qualità. L’obiettivo non era farne forzatamente degli intellettuali, ma insegnare loro le parole per diventare esseri umani migliori, condividendo e comunicando con gli altri. Proprio il contrario, invece, di quanto Manzoni fa dire a Renzo: più parole si usano più cercano di fregarti, le parole servono al contrario a raccontare ciò che abbiamo dentro. “Mi prendo cura di te”, quando le cose che ti dico sono quelle che sento. E non a caso il mio incubo ricorrente è raccontare storie usando interamente frasi fatte e stereotipi.
C’è un ricordo particolare che conserva delle sue presenze all’Ama Festival?
Sì. È quella sorpresa delle mongolfiere che si sono levate in cielo al termine dello spettacolo. È un’immagine che custodisco anche perché secondo me dice tanto di Francesco e dell’esperienza che attorno a lui è nata. La comunità non era uno spazio autoprotetto, non un fortino ma un luogo dove si sentiva sempre palpitare il mondo.
Per ricevere la rivista ci si può rivolgere a comunicazione@ama-aquilone.it.
Le foto sono dell’Associazione Ama Aquilone.
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