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Zamagni: il Terzo settore? Non può più essere solo una “minoranza profetica”
L'editoriale del professore padre dell'economia civile ha rilanciato, sulle pagine di VITA magazine di novembre, il dibattito sulla configurazione del Terzo settore. Qui uno stralcio del suo intervento aperto a tutti i lettori e la versione digitale integrale dedicata agli abbonati
SI legge nel Paradiso dantesco: “Sempre la confusione de’ pensieri principio fu del mal della cittade”. È proprio così: confondere concetti e modelli è sempre causa di incomprensioni e di deleteri conflitti. È quel che spesso accade con l’espressione “economia sociale”, che conosce tre declinazioni diverse. La più antica — si fa per dire — è quella di Economia Sociale di Mercato (Esm) che fa riferimento a quel modello di organizzazione economica elaborato in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali da studiosi autorevoli quali Eucken, Röpke, Müller-Armack, valido collaboratore di Erhard nella Germania post-bellica. L’espressione Esm entra nel Trattato di Maastricht (1992), pur senza il consenso di personaggi della statura di Jacques Delors e altri. Oggi conosciamo le ragioni per le quali tale modello non ha avuto, in Europa, il seguito e dunque le applicazioni pratiche che ci si poteva aspettare.
Una seconda versione del distico “economia sociale” è quella esposta nel volume di G. Becker e K. Murphy Social Economics Market Behaviour in a Social Environment (Harvard Univ. Press, 2000). Ricordo che il premio Nobel Becker è stato cofondatore, assieme a M. Friedman, della scuola economica di Chicago. Scopo dichiarato di questi ed altri studiosi è quello di applicare le categorie di pensiero tipiche del progetto neoliberista — prima fra tutte quella dell’efficienza —– all’agire di coloro che operano nell’area del sociale. In buona sostanza, per chi si riconosca in tale versione si tratta di applicare, in modo coerente, agli enti di Terzo settore la logica del libero mercato, equiparando di fatto beni relazionali e beni comuni ai beni privati e a quelli pubblici.
La terza declinazione di “economia sociale” è quella propriamente italiana, il cui fondamento si può collocare nel XIII secolo, quando sorgono in terra di Toscana quelle organizzazioni che oggi chiamiamo Ets, ben prima dunque della nascita sia del mercato (XV sec.) sia dello Stato (XVI sec., dopo la pace di Westphalia). Si pensi alle Misericordie, tuttora in vita, e alle Confraternite cui si deve l’invenzione e la creazione dell’Ospedale moderno come luogo di cura. Giova sempre ricordare che l’espressione “Terzo settore” appare per la prima volta nei saggi degli americani A. Etzioni (Third Sector and Public Administration, 1973) e di T. Levitt (The Third Sector: new Tactics for a Responsive Society, pure del 1973). Tratto distintivo di questa terza versione dell’economia sociale è l’affermazione del modello tripolare di ordine sociale: Stato-Mercato-Comunità, secondo cui il terzo pilastro, quello costituito in prevalenza dal Terzo settore, deve godere della medesima cogenza costituzionale degli altri due e dunque deve poter partecipare, in condizioni paritarie, ai vari momenti del processo di co-programmazione. (Cfr. la fondamentale sentenza 131 della Corte Costituzionale del giugno 2020).
È motivo di soddisfazione constatare che la recente linea di azione che l’Unione Europea ha fatto propria si muove in questa ultima direzione. Ne è prova il lancio dell’Action Plan for Social Economy, del novembre 2022, la cui cifra è di assegnare al Terzo settore, e in modo speciale alle imprese sociali e alle cooperative sociali, compiti non solamente di welfare e redistributivi, ma pure di sviluppo economico, cioè di generazione di valore economico. Tanto che la Proximity and Social Economy è stata inserita tra i 14 cluster industriali sui quali poggia la recovery strategy europea. Quella della social and impact economy è un’idea recente in Europa e se ad essa si è giunti è anche merito del grande lavoro svolto dal nostro Terzo settore nell’ultimo paio di decenni.
Degna di nota speciale è pure l’approvazione, il 18 aprile 2023, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, della risoluzione, prima del genere per tale istituzione, sulla economia sociale e solidale. Risoluzione che riconosce esplicitamente la rilevanza del Terzo settore, come agente fondamentale per la ricostruzione dei legami comunitari, cioè del capitale sociale, delle nostre società. Non meno importante è stata la risoluzione, approvata nel 2022, dell’Ilo (International Labour Organization) e dell’Oecd (Organisation for Economic Cooperation and Development) avente per oggetto il “Decent work and the social and solidarity economy” e la “Recommendation of the Council on the social and solidarity economy and social innovation”.
Perché la confusione di pensiero di cui sopra si è scritto non giova alla causa di far avanzare le nostre società sulla via dello sviluppo umano integrale? Una risposta — che però non è l’unica — è nella presa d’atto della recente diffusione, a livello internazionale, di una duplice posizione, politica ed economica ad un tempo. Per un verso, quella dei Patriotic millionaires e per l’altro verso quella dei Woke capitalists. Si tratta di soggetti appartenenti alla categoria dei super ricchi. Il motto dei primi è: “In tax we trust”. Costoro chiedono ai governi di accrescere la pressione fiscale a loro carico (fino al 60% dei redditi conseguiti) per provvedere a quanto serve per il welfare, a condizione di essere “lasciati in pace” nella loro attività. Non v’è bisogno di essere più espliciti al riguardo.
Diversa, invece, la proposta avanzata dai Woke capitalists. (Cfr. R. Rhodes, Il Capitalismo Woke, Torino, 2023). La loro richiesta è che, poiché la politica non è più in grado di assecondare le aspettative di benessere dei cittadini e poiché gli enti di Terzo settore non hanno la forza, pur avendone la volontà, di provvedere alla bisogna, ricchi e super ricchi devono farsi carico di sostituire lo Stato nell’assolvimento dei suoi compiti nell’area del welfare, a patto di non venire gravati da un’imposizione fiscale sul reddito superiore al 15%. Peter Theil, miliardario digitale di PayPal e Polantir, dettò nel 2009 il “Manifesto Politico della Sylicon Valley Oligarchica” in cui si legge, fra l’altro: «Non credo che libertà e democrazia siano tra loro compatibili perché i sussidi e l’assistenza ai poveri, il voto alle donne (sic!) e ai gruppi ostili alle idee libertarie, rendono impossibile la democrazia capitalista». E più avanti: «La Rivoluzione francese è ormai obsoleta. Perché la Rivoluzione tecnologica trionfi serve un’oligarchia, dove maschi, bianchi, imprenditori coordinano la vita dei sudditi consumatori, senza burocrazie di sorta». Il think tank dei capitalisti woke, un gruppo che include persone come J. D. Vance, C. Yarwin, D. Sacks e, più recentemente E. Musk, è il “Claremont Institute”, fondato dai seguaci del filosofo ultraconservatore Leo Strauss.
Mai si dimentichi che la magnificenza non è la stessa cosa della munificenza. La prima significa trasformare la ricchezza privata in beneficio pubblico allo scopo di rivendicare il proprio onore e il diritto a governare. (Cosimo de’ Medici salvò bensì Firenze dalla bancarotta, ma se la comprò!). La seconda, invece, rinvia al concetto di dono come gratuità.
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