Volontariato

E ricordatevi che si chiama borsa valori

Parla Alberto Previtali, il più giovane agente di cambio italiano: "I risparmi gestiti in maniera socialmente responsabile sono l'1% del totale. Per migliorare ci vuole meno ambiguità"

di Francesco Maggio

Dopo la laurea nel 1983 in Economia e commercio a Bergamo e un breve soggiorno a Londra, entra come procuratore di Borsa nello studio milanese del leggendario Leonida Gaudenzi. Nel 1989 diventa agente di cambio e apre uno studio a suo nome. Che oggi però non c’è più, essendo confluito in Diners club Sim. Di cui egli è direttore dell’area finanza. Alberto Previtali, 41 anni, il più giovane agente di cambio italiano, ha fatto in tempo a vivere in prima persona gli ultimi anni bohémien della Borsa valori quando, come sosteneva Enrico Cuccia, le azioni si pesavano e non si contavano. Ha poi assistito all’irrompere sulla scena dei fondi comuni di investimento che hanno, in breve tempo, fatto salire enormemente gli scambi di Piazza Affari. E, da manager di uno dei gruppi leader della finanza mondiale (Diners Club fa parte di Citicorp, quarto gruppo bancario al mondo), ha deciso di gestire una fetta consistente del patrimonio amministrato ispirandosi al cosiddetto Socially responsible investing. Vita: Come è stata possibile, in poco più di un decennio, una simile rivoluzione in Borsa? Alberto Previtali: Fino a circa metà degli anni Ottanta quello degli agenti di cambio era un mondo ovattato, circondato dal rispetto più assoluto, e gli investitori di Borsa erano uno sparuto gruppo di aziende. Ogni giorno, al massimo, si registravano scambi sui 40-60 miliardi di lire. Di fatto, non aveva neanche senso parlare di un vero e proprio mercato borsistico. Poi, d’un tratto, sono arrivati i fondi comuni di investimento. E gli scambi sono aumentati, giungendo a toccare, quotidianamente, diverse centinaia di miliardi e a raggiungere oggi, nei frangenti di picco, anche quota 12-13 mila. Vita: A cosa si deve l’irruzione dei fondi di investimento? Previtali: Il loro ingresso sulla scena finanziaria lo si deve essenzialmente al fatto che la Borsa italiana ha dovuto, per forza di cose, adeguarsi a quanto avveniva sui mercati internazionali. A colpi di direttive comunitarie sulla libera circolazione di merci e persone, con l’eliminazione delle barriere agli interscambi, la globalizzazione dell’economia, era inevitabile che anche la Borsa ne risentisse le conseguenze. Tali aperture al resto del mondo hanno, inoltre, comportato che nuove regole di trasparenza, di informativa societaria, si affermassero in un ambito che fino ad allora aveva vissuto sostanzialmente al riparo da qualsiasi riflettore. Da qui l’introduzione della legge sulle Sim (società di intermediazione mobiliare, ndr) e la progressiva uscita di scena della figura degli agenti di cambio, oggi rimasti attivi in non più di una quarantina. Vita: E le aziende italiane come hanno vissuto la transizione? Previtali: Anche per le imprese, naturalmente, c’è stata una rivoluzione. L’apertura dei mercati, la non episodica incapacità del sistema bancario di accompagnare lo sviluppo imprenditoriale, la nascita di nuovi prodotti finanziari hanno spinto molte aziende a compiere il grande salto di quotarsi in Borsa e andare lì ad approvvigionarsi del capitale necessario al proprio sviluppo. Ma c’è anche un altro aspetto da sottolineare. Vita: Quale? Previtali: Andare in Borsa vuol dire anche dover rispettare tutta una serie di regole di trasparenza, tenere un’accurata e non improvvisata contabilità, fornire periodicamente puntuali informative societarie alla Consob e tanti altri obblighi, certamente costosi e non semplici da ottemperare. Ebbene, se nonostante tali adempimenti, cui spesso peraltro le imprese ve ne aggiungono volontariamente altri, come per esempio la redazione del bilancio sociale, esse hanno deciso di quotarsi è perché oggi il mercato, i risparmiatori, ma anche i consumatori, apprezzano sempre di più la correttezza, la trasparenza e quella che in senso lato potremmo definire responsabilità sociale d’impresa. Vita: È a questa crescente sensibilità delle società per i temi della responsabilità socio-ambientale d’impresa che si deve l’affermazione dei fondi etici? Previtali: Direi proprio di sì. I fondi di investimento etici, come noto, nascono e si affermano innanzitutto in quei Paesi, come quelli anglosassoni, dove ci sono le Borse più importanti del mondo. Un mercato borsistico ampio e consolidato significa che è capace di raccogliere tutte le istanze degli investitori. E non c’è dubbio che le istanze di investimenti socialmente responsabili che si levano siano sempre più diffuse. Ecco allora che una simile ricettività attiva un circuito virtuoso tra le imprese che, per diventare appetibili sul mercato, prestano crescente attenzione ai temi della responsabilità socio ambientale. E i fondi etici, che vedono ampliarsi il paniere di aziende in cui investire. Vita: Questo nei Paesi anglosassoni. Ma da noi? Previtali: Noi scontiamo un forte ritardo in questo settore, anche se di recente stiamo assistendo a un visibile e promettente recupero. Il capitale da noi gestito in maniera socialmente responsabile ammonta a circa l’1% dell’intero monte impieghi annuale. Ma siamo pur sempre a un più 300% rispetto ai due anni precedenti. In Paesi come la Germania o la Francia, per non parlare della Gran Bretagna, le percentuali si aggirano attualmente intorno al 7-8%. C’è quindi un grande gap da colmare. Vita: Per questo Diners Club Sim ha lanciato un’intera linea di gestione patrimoniale mobiliare etica? Previtali: Sì, siamo stati i primi in Europa a farlo e abbiamo deciso di chiamarla significativamente “Obiettivo uomo”. Noi, infatti, crediamo che oggi ci siano ampie potenzialità di crescita in questo comparto. Vogliamo, quindi, essere a tutti gli effetti della partita, e contiamo già quest’anno di riuscire a raccogliere 100 miliardi di lire di capitale da gestire eticamente. Anche se, è doveroso dirlo, non ci nascondiamo le difficoltà. Vita: Quali? Previtali: Fondamentalmente due. La prima è di natura culturale. Quando parliamo con i nostri potenziali clienti, per esempio, fondazioni e istituzioni religiose, spesso riscontriamo in loro un duplice atteggiamento: da un lato, si mostrano estremamente interessati nei confronti del socially responsible investing. Dall’altro, però, sono perplessi circa i rendimenti che diciamo loro di poter garantire in quanto pensano che questo comparto della finanza, inevitabilmente, implichi tassi di redditività inferiori agli investimenti di tipo tradizionale. Dobbiamo quindi fare un grande sforzo per convincerli che le cose non stanno affatto così. Di qui il ruolo dell’informazione di settore: se seria e competente può rivelarsi determinate per il decollo della finanza etica nel nostro Paese. Vita: E la seconda difficoltà? Previtali: Anch’essa è di ordine culturale, ma stavolta riguarda più da vicino i gestori che spesso “giocano” con l’aggettivo etico. Chiamano cioè etici dei fondi che invece non fanno altro che prevedere la devoluzione di parte delle commissioni di gestione a favore di organizzazioni non profit. Ma questa è beneficenza, e non ha nulla a che vedere con gli investimenti socialmente responsabili che, al contrario, presuppongono uno screening rigoroso, secondo criteri etici di selezione, delle aziende nei cui titoli i fondi etici investono.


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