Idee Sostenibilità
L’economia sociale? È ancora troppo poco “oscena”
Quanto è oscena l’economia sociale oggi? Quanto riesce a sbalordire con una proposizione radicalmente trasformativa rispetto ai fallimenti che produce un sistema economico che massimizza l’estrazione e tenta, contemporaneamente, di intonare l’inno alla sostenibilità? La mia risposta è: troppo poco
di Luigi Corvo
L’economia sociale ha destabilizzato il pensiero economico mainstream. Per tentare di cogliere più in profondità l’effetto prodotto da un’idea di politica, di economia, di società che proponeva di poter tenere insieme prosperità e benessere, bisognerebbe rileggere il libro di William Lucas Sargant del 1858 Social innovators and their schemes. Siamo a 14 anni dalla nascita della cooperativa di Rochdale, a 10 anni dalla pubblicazione di un testo che cambierà il corso della storia, e nel bel mezzo di sperimentazioni socio-economiche che sfidano al cuore il paradigma capitalista: l’idea che l’uomo sia un agente individualista e interessato alla sua massima utilità.
Tuttavia Sargant non si riferisce alla mera proposizione concettuale del cooperativismo, bensì focalizza la sua attenzione sulle donne e sugli uomini che incarnano quei valori e con le loro pratiche comunitarie sfidano “l’ordine naturale delle cose”. Sfidano, quindi, la natura e non, semplicemente, una teoria economica. Perché la teoria economica mainstream veniva ritenuta “naturale”, come un elemento appartenente alla biologia umana e, pertanto, non discutibile. Da qui l’utilizzo da parte dell’autore dell’espressione schemes, indicando quanto siano folli questi idealisti chiamati innovatori sociali nel pensare e praticare una forma di economia e di società così radicalmente divergente dalla natura: le forme di cooperazione comunitaria di Robert Owen, i falansteri di Charles Fourier, le officine sociali di Luis Blanc. Sargant esprime sconcerto verso tali innovatori sociali difronte alla loro proposizione di diffondere la proprietà ai nullatenenti, di considerare uguali tutti i cooperanti nella distribuzione dell’utile e nei processi decisionali, di preoccuparsi non solo della produzione industriale ma anche della risposta a bisogni sociali come la casa, la salute, l’educazione…
Sargant ci mostra quanto fosse oscena l’economia sociale per il pensiero dominante dell’epoca.
Quanto è oscena l’economia sociale oggi? Quanto riesce a sbalordire con una proposizione radicalmente trasformativa rispetto ai fallimenti che produce un sistema economico che massimizza l’estrazione e tenta, contemporaneamente, di intonare l’inno alla sostenibilità? La mia risposta è: troppo poco.
Troppo poco, innanzitutto, perché le nuove generazioni non vedono nell’economia sociale una via per mettere in discussione lo status quo. Negli anni delle grandi dimissioni, negli anni dello smart working e del ripensamento dell’equilibrio fra tempo e lavoro, fra senso e retribuzione, la soluzione di uscita tende a prediligere forme individuali di lavoro e nomadismo digitale. Troppo poco perché dinanzi alle crisi sociali più evidenti, fra tutte la questione abitativa e la questione sanitaria, non emergono modelli cooperativi in grado di rispondere ai fallimenti di stato e mercato.
Troppo poco perché l’abbraccio con la Pubblica Amministrazione rischia, ancora una volta, di essere riduttivo e svilente se non giocato su una prospettiva di alleanza strategica e dialettica, dove le organizzazioni dell’economia sociale si svincolano dal ruolo di delivery dei servizi di welfare e si propongono come soggetti in grado di contendere la funzione pubblica con processi di co-creazione di valore pubblico. In altri termini, non accettando il ruolo di soggetti in grado di lenire le ferite prodotte da questi modelli di Stato e mercato, ma attori protagonisti di una differente versione di sviluppo.
Negli ultimi decenni, infatti, ad ogni crisi economica si è fatto ricorso alle organizzazioni dell’economia sociale per far fronte alle emergenze: è stato così dopo la crisi economica e finanziaria del 2007; è stato così in Grecia con la crisi del debito, con le multinazionali in fuga e le organizzazioni mutualistiche in prima linea a gestire la catastrofe; è stato così con la crisi pandemica. In tutti questi frangenti l’economia sociale è stata utilizzata come forza di interposizione affinchè la crisi economica non sfociasse in crisi democratica. Ma svanita l’emergenza, al tavolo delle politiche di sviluppo non si è riservato il posto agli attori dell’economia sociale (vedi il Pnrr, vedi il Rapporto Draghi).
E dovremmo ridiscutere nel merito il citatissimo Codice del Terzo Settore, non per analizzare la bontà dei suoi articoli, ma per riflettere criticamente sulla netta separazione che si è prodotta fra Cooperazione e Terzo Settore, separando di fatto i due dispositivi principali dell’economia sociale: il primo in grado di contendere il profitto sul mercato con modelli di impresa cooperativa e portando a democrazia il capitale, il secondo in grado di contendere la funzione pubblica con la generazione di valore sociale e sostenibilità economica. Molto più di una terza via.
Per recuperare quella radicalità, dunque, per riuscire ad essere sorprendenti e rappresentare un’opzione praticabile per uscire dai fallimenti del presente, l’economia sociale non solo dovrebbe, ma potrebbe incarnare a pieno la leadership della transizione giusta. Dovrebbe e potrebbe puntare ad un Codice dell’Economia Sociale, costruendo una social taxonomy che detti le condizioni del Do Not Significant Harm in campo sociale e condizionando le dinamiche di mercato e le politiche pubbliche nel fare i conti con l’osceno.
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