Formazione

Vacanze 2004: tutta un’altra meta

Viaggi di conoscenza e turismo responsabile: i nuovi trend dell'estate. Su Vita magazine in edicola la guida completa ai nuovi itinerari, da Santiago de Compostela a Calcutta

di Redazione

Cosa avete fatto? «Appena scendi dall’aereo, tempo mezz’ora e qualcuno te lo chiede: garantito. Ti bombardano con questa domanda, senza sapere quanto ti mettono in difficoltà e ti irritano», dice Laura, 23 anni, di ritorno da un mese in Mozambico. Ti irritano? «Sì, anche se è la stessa domanda che prima di partire facevo io agli organizzatori. Invece i verbi sono altri: innanzitutto ?stare?. Lo spieghi, la gente sembra capire, ma dopo un po’ torna alla carica: ?Bello, ma concretamente cosa facevate??». Molti, quest’estate, si troveranno nella stessa situazione. Perché quest’estate il viaggio di conoscenza è più gettonato del campo di lavoro, soprattutto nei paesi del Sud del mondo. Lo conferma Alfredo Somoza, presidente di Icei, che ha diretto l’Associazione italiana turismo responsabile dal 1998 al maggio scorso. È una tendenza in atto già da qualche anno, da quando cioè le ong impegnate nella cooperazione allo sviluppo e gli istituti missionari si sono messi a ripensare senso e obiettivi delle ?esperienze estive?. A partire da due considerazioni: che un mese è troppo breve per essere operativi e di conseguenza che chi parte per ?essere utile agli altri? spesso cerca solo un’autogratificazione. «Un desiderio positivo», dice Monica Weisz, coordinatrice dei campi estivi di Coopi, «ma al quale non corrisponde alcuna realtà». È nata così una formula nuova, anche se diversa da un’organizzazione all’altra: non si parte per fare nulla, ma per ascoltare, stare, incontrare, condividere. «È un approccio più coerente con i principi della cooperazione: coordinare progetti pensati e realizzati da operatori locali, non da europei», chiarisce la Weisz. A questo punto la domanda fastidiosa la facciamo noi: questo mese non può essere un contenitore vuoto! Ci sono gli incontri delle comunità di base di Ivan e l’animazione con i bambini di Mino, in Brasile; le pannocchie sgranate di Benedetta, in Mozambico; il servizio alle mense popolari e le visite ai malati di Alessandra, in Perù; le discussioni sull’acquedotto di Carlo, in Kenya e i massaggi ai moribondi di Kaligat, Calcutta, di Paolo. Ci sono i bambini che ti portano a onorare la salma dell’anziano del bairro e le donne con cui vai a prendere l’acqua al pozzo. Insomma, c’è la vita quotidiana di una comunità. Non è un’intrusione Prima obiezione: non è un’intrusione? «No, ma a tre condizioni», risponde Claudia Corsolini, direttore generale di Ovci. «Che la comunità locale sia interpellata ed esprima il desiderio di accogliere i giovani italiani e di condividere l’esperienza con loro; che il gruppo sia molto piccolo, al massimo cinque persone, e che chi parte abbia l’atteggiamento giusto, cioè sia disponibile a lasciarsi coinvolgere senza pretendere di esserlo. Per questo deve essersi preparato prima di partire e deve aver lavorato moltissimo sulle motivazioni». Solo così si può scongiurare il rischio del «volontariato esotico», come lo chiama lei, del visitatore, guardato male dalla gente, «perché talmente ricco che nelle sue vacanze può permettersi di lavorare gratis al mio posto». La partecipazione a un articolato percorso di formazione è la ?conditio sine qua non? per partire: «Perché il bene va fatto bene», sintetizza in una battuta padre Simone Caelli, del Pime. E perché, ribadisce la Corsolini, un’esperienza di un mese ha senso solo se porta a cambiare qualcosa qua, quando si torna; se è «breve ma non corta». Seconda obiezione: non si è di peso? Serve qualcuno che accompagni, che spieghi, che introduca… «È la regola numero uno», afferma padre Mosè Mora, comboniano. «Mai organizzare l’esperienza in modo che un missionario o un operatore stacchi per un mese dal suo lavoro, per dedicarsi al gruppo». L’alternativa? Per Somoza, «pensare a un alloggio con un senso comunitario». Ovvero: «Non alloggiare tutti insieme in parrocchia, serviti e riveriti, ma autogestirsi in una casetta, fare la spesa al mercato, cucinare i piatti del posto, essere disponibili a fare lavori concreti nella comunità», conclude padre Mosè. Allora si lavora anche qui! Sì, se serve, ma non come obiettivo. Siamo vicini al turismo responsabile? «No, perché non si va per visitare luoghi, ma per incontrare realtà e persone», afferma David Sacquegna, di Aifo. «Si entra direttamente in contatto con le problematiche dell’associazione e negli operatori locali cresce la motivazione e la consapevolezza del proprio lavoro». Stare, non fare E i tradizionali campi di lavoro? «Sono stati anche viaggi di conoscenza, quando questi ancora non esistevano», ricorda Somoza. Tengono, ma con motivazioni nuove: «I giovani hanno voglia di lavorare con persone di nazionalità diverse», dice Raffaella Pagliei, di Sci, che vanta 500 ragazzi in partenza. Anche per questo moltissimi campi sono nell’Europa dell’Est e prevedono interventi di animazione sociale e l’organizzazione di festival culturali: «Ci sono molte occasioni di scambio e confronto con i professionisti locali con cui collaboriamo», spiega Silvia Maraone di Acli Ipsia. Un consiglio, quindi: quando a fine agosto incontrerete gli amici di rientro dai vari campi, non usate il verbo ?fare?! Su Vita magazine in edicola la guida completa ai nuovi itinerari, da Santiago de Compostela a Calcutta


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