La vera inclusione
Dai minatori ai Maori a noi: vi racconto la giustizia riparativa
Intervista con il criminologo australiano John Braithwaite, considerato il padre di questa concezione "gentile" ma non buonista che allarga i confini della legge alla possibilità di incontro tra colpevole, offeso e comunità. I suoi studi hanno dimostrato che la recidiva diminuisce e che l'approccio vale per i piccoli reati così come nei percorsi di pace
John Braithwaite è considerato il “padre” della giustizia riparativa. Criminologo australiano di fama mondiale, oggi professore emerito dell’Australian National University, è anche componente del consiglio scientifico dell’Alta Scuola Federico Stella sulla giustizia penale dell’Università Cattolica. Qualche giorno fa ha ricevuto dalle mani da Sergio Mattarella il premio Balzan 2024 per la sua opera. Lo incontriamo proprio alla Cattolica, dove ha tenuto una lezione con altri illustri colleghi, tra i quali Marta Cartabia, ex ministro della giustizia nel governo Draghi, che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità di attuare percorsi di giustizia riparativa. Quella con il professor Braithwaite è stata una lunga chiacchierata, di cui riportiamo alcuni stralci.
Professore, la prima domanda per i lettori di VITA non può che partire da una curiosità: quando è nato in lei l’interesse per questa materia così delicata?
La mia prima esperienza è stata con la borsa di studio in Business regulation (poi diventata anche sua materia di insegnamento, ndr) quando andavo ad analizzare le ispezioni di sicurezza nelle miniere di carbone in diversi Paesi del mondo. Entravo nelle miniere e interagivo direttamente con i minatori per trovare soluzioni ai problemi e migliorare le condizioni di sicurezza.
Che cosa notava?
Alla fine di ogni ispezione, quando si risaliva, i minatori erano soliti tenere una riunione. Intorno al tavolo, seduti in cerchio, si ritrovavano i minatori scelti dai lavoratori, i responsabili salute e sicurezza, i rappresentanti del management e della proprietà, gli ispettori, i rappresentanti del comitato residenti e parenti e quelli del dipartimento assistenziale e sanitario, formando quindi un cerchio di stakeholder. A volte la situazione poteva farsi particolarmente toccante, perché avevamo casi in cui un residente era costretto a letto, non poteva stare seduto o alzarsi in piedi in autonomia. Sono tutti esempi di come il lavoro aveva danneggiato le persone.
Chi altri incontrava?
Durante i miei studi andavo anche alle riunioni nel dipartimento degli assistenti sociali, in cui un team di professionisti decideva come modificare o migliorare il piano di assistenza per i residenti, dalle attività alle cure mediche. Le modifiche che portavano risultati migliori erano quelle in cui i parenti e i residenti stessi venivano coinvolti nella definizione del piano assistenziale, seguendo un’impostazione “riparativa”. È capitato, ad esempio, che un’anziana residente di queste case non potesse più parlare e non mangiava: stava appassendo davanti ai nostri occhi. Medici e dietologi non riuscivano a risollevarla. A un certo punto, la figlia di questa signora fece semplicemente notare che sua madre non mangiava perché non le piaceva il cibo, aveva una repulsione per i piselli e i fagioli che le servivano ogni giorno. Così i medici hanno stabilito un nuovo regime alimentare per lei, con migliori alternative di pasti. Vedere tutte quelle brave persone assistere e cercare di migliorare le condizioni delle persone con fragilità mi ha davvero ispirato molto per il mio lavoro ed è stato lì che mi sono appassionato alla materia.
Come è proseguito?
Successivamente, ho incontrato alcune persone che mi hanno raccontato la loro esperienza in Nuova Zelanda con la giustizia giovanile. Da lì in poi, mi sono sempre più interessato alla criminologia e ad approfondire il concetto di giustizia riparativa.
La lezione che lei ha tenuto alla Cattolica di Milano si intitola: “Gentle ideas for hard problems” – Idee delicate per problemi difficili”. Ci può definire in termini “delicati” e semplici la giustizia riparativa?
La giustizia riparativa è un processo per cui tutte le persone coinvolte in un reato – non solo la vittima e l’autore, ma anche le famiglie, gli assistenti sociali, la comunità – hanno l’opportunità di riunirsi e discutere con chi è stato danneggiato e capire cosa può essere fatto per “riparare” il torto subito. L’obiettivo è quello di siglare insieme un accordo che incontri e tenga in considerazione i bisogni di tutte le persone coinvolte.
Quali sono i vantaggi?
La sottoscrizione effettiva di questo accordo, da parte di tutte le parti coinvolte, è un passaggio molto importante. Gli studi dimostrano che la giustizia riparativa, nonostante non rientri nei canoni della legge, è più efficace delle pene inflitte secondo le normative. Infatti, quando un giudice impartisce una pena prevista dalla legge sarà compito di un ufficiale esterno, terzo, assicurarsi che la sanzione venga effettivamente eseguita e rispettata.
«Per giustizia riparativa si intende ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore»
Art. 42 del decreto legislativo 150 del 2022 che ha introdotto in Italia la giustizia riparativa
Il che molte volte non succede o avviene in modo fallimentare. Il principio della giustizia riparativa, invece, assicura una maggiore obbedienza e conformità: l’accordo tra le parti non ha certamente la stessa forza legale di un ordine imposto da un giudice, ma è più efficace, perché sono le stesse persone coinvolte e i loro parenti più vicini a stabilire i termini della riparazione del torto subito e saranno loro stesse ad assicurarsi che quanto pattuito venga portato a termine. E, visto l’alto livello di coinvolgimento, siamo certi che lo faranno come un dovere di famiglia.
Lei dice da sempre che «il reato ferisce, la giustizia deve guarire». Ma la giustizia riparativa è adatta a tutti i tipi di reato o ce ne sono alcuni in cui tende a funzionare di più?
Penso che sia la giustizia in sé ad essere l’obiettivo adatto per ogni tipo di crimine, dai crimini minori fino all’omicidio e al genocidio. Non faccio distinzione tra la giustizia riparativa e altri tipi di giustizia: la punizione può essere rilevante per certi tipi di crimini tanto quanto la giustizia riparativa.
Qual è il rapporto tra l’introduzione di percorsi di giustizia riparativa e la recidiva nei reati?
È un rapporto più complesso di quanto sembri. Gli studi che ho condotto dimostrano che esiste una correlazione moderatamente e statisticamente significativa tra la giustizia riparativa e la riduzione della recidiva. Quando dico moderata intendo che è efficace quanto i migliori tipi di intervento per scongiurare una recidiva.
Ci può fare qualche esempio?
I migliori programmi di disintossicazione da abuso di droga richiedono, solitamente, uno o due anni di investimento, con incontri e controlli regolari. Al contrario, un programma di riabilitazione secondo la giustizia riparativa può prevedere anche un solo incontro di circa 90 minuti. In termini di costo-efficacia, il rapporto costo-efficacia della giustizia riparativa è molto più alto. Ci sono molti problemi nel modo in cui viene valutata la giustizia riparativa, perché tendiamo a valutare l’efficacia di quel singolo intervento. Se valutassimo i programmi di riabilitazione in base a quanto è cambiato l’uso di droga dopo quella seduta di 90 minuti di sessione, nessuno avrebbe mai avuto alcun impatto, quindi è un risultato abbastanza buono
Ci sono dunque pro e contro?
La giustizia riparativa spesso si “archivia”, capita anche che vada a peggiorare le cose. In media, però, le rende migliori in modo statisticamente significativo. Va ancora meglio se consideriamo gli impatti e le ricadute sulle vittime. Infatti, non sono solo gli autori di un reato che tendono a commetterne di nuovi, ma anche le vittime stesse. Pensiamo ai casi di violenza, quando è spesso chi è sopravvissuto all’aggressione a mostrare di più la tendenza a commettere nuovamente violenza a sua volta. Questa interconnessione diventa tanto più profonda quanto più un crimine è grave, muovendoci dai crimini personali fino ai crimini di guerra. Pensando alle lotte tra organizzazioni criminali avversarie, sappiamo bene che, se un gruppo attacca, il gruppo vittima colpirà a sua volta. Se adottiamo una metodologia che misura solamente se c’è una rioffesa da parte del gruppo che ha mosso il primo attacco, si nota bene quanto il tutto sia limitato.
Si va avanti anche per prove ed errori?
Ci sono stati e ci saranno sicuramente alcuni tentativi falliti nell’applicare la giustizia riparativa – anche i programmi tradizionali di rehab falliscono sempre, ma non per questo si smette di provare – e abbiamo molti margini di miglioramento, ma i risultati della giustizia riparativa sono molto incoraggianti, in termini di riduzione del crimine. Pensando anche ai programmi per il raggiungimento della pace in contesti di guerra, il più delle volte sono dei fallimenti. Ma quello che sappiamo degli accordi di pace è che non si riesce mai ad avere un accordo di successo a meno che non si abbia fallito numerose volte prima.
Gli addetti ai lavori cosa pensano della giustizia riparativa?
I Paesi che hanno avuto i risultati migliori in termini di giustizia riparativa sono quelli dove la professione dell’avvocato è molto considerata. Forse alcuni avvocati sono più scettici verso il concetto di giustizia riparativa perché l’iter e lo studio per diventare professionista è un percorso che concentra e circoscrive la mente, dove la maggior parte degli studenti e praticanti imparano a trovare una soluzione unicamente legale a un problema, e credo che il limite sia qui.
È più facile che la giustizia riparativa sia considerata da chi ha la fede o è per tutti?
La giustizia riparativa è un concetto per tutti, sia che abbiano sia che non abbiano fede. Credo, però, che le persone si facciano coinvolgere troppo da questo tema. Due società anche vicine tra loro, come Australia e Nuova Zelanda, possono avere usanze e credenze diverse tra loro ma l’applicazione della giustizia riparativa è presente in entrambe. In Australia, un Paese con una pluralità di religioni diverse, teniamo la giustizia separata dalla religione. Essa è totalmente amministrata dallo stato e, ad esempio, non si dicono mai le preghiere all’inizio di un incontro di mediazione di giustizia riparativa. In Nuova Zelanda, la giustizia viene amministrata dai Maori, un popolo molto credente che ha integrato nella giustizia la fede cristiana, che è una parte molto viva e sentita della loro cultura. Quindi in queste conferenze hanno integrato aspetti fortemente religiosi e culturali che li caratterizzano, come le preghiere o il gesto di saluto di sfiorarsi il naso.
Foto in apertura LaPresse, foto interne Ufficio Stampa Unicatt
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