Libri
Cucinella: «Il mondo sostenibile non è quello in cui si piantano alberi in terrazze di cemento»
Mario Cucinella si racconta in un libro che non procede per linee temporali, ma vaga per connessioni, avanti e dietro nel tempo, muovendosi sul filo delle analogie e dei ricordi. Libro fortemente consigliato non solo agli architetti, urbanisti e studenti, ma anche a tutti gli amanti dell’avventura umana
È un bellissimo libro quello di Mario Cucinella scritto con Serena Uccello (Città foresta umana. L’empatia ci aiuta a progettare, ed. Einaudi, pp 221, euro 18), un viaggio nella sua autobiografia umana e professionale che non procede per linee temporali, ma vaga per connessioni, avanti e dietro nel tempo, muovendosi sul filo delle analogie e dei ricordi.
Il racconto si dipana dal fascino dello studio del cugino Sandro, architetto a Genova, l’incontro con Renzo Piano da cui andrà a bottega, sino al primo ufficio a Parigi in un palazzo di Le Corbusier con i tavoli su cui proprio Piano aveva progettato il Beaubourg. E poi via, di progetto in progetto, di gara in gara (qui i progetti e realizzazioni di Mario Cucinella Architects) sino a Bologna e Milano. Dieci capitoli che raccontano di come i persiani riuscivano a produrre la granita al tamarindo, dell’arte delle piccole cose, dell’architettura della cura e della formazione, di come immaginare lo spazio mistico e della preghiera. Nel libro si raccontano le gare (decine e decine) a cui lo studio di Cucinella ha partecipato negli anni e i tantissimi progetti realizzati. Alcuni, pensati o realizzati in zone di guerra come il progetti per la scuola per Khan Yunis a Gaza nel 2013 o la realizzazione del Peace Village a Brovary, pochi chilometri a nord di Kiev inaugurato nel marzo 2023 (qui la cronaca).
Viaggiare, incontrare, ascoltare, mettersi in gioco, sono i verbi in cui si coniuga l’empatia evocata nel titolo (forse l’unico punto debole del libro perché non restituisce tutto lo spessore del racconto); Cucinella è un architetto umanista che prende parte alle vicende del suo tempo.
Se sostenibilità diventa un abito alla moda
E lo fa con giudizi chiari, persino taglienti: «Occorre prima di tutto una grande operazione verità, iniziando dall’evidenza che molto di quello che abbiamo immaginato non funziona, non è reale. Non è reale la città da cartolina in cui vivono solo individui felici che scorrazzano da una parte all’altra inforcando biciclette attraverso parchi cittadini, perfettamente disegnati e tenuti., individui che indossano solo tessuti in fibre naturali che vivono in case cosiddette green, che mangiano cibo a chilometro zero. Non è reale perché si trasforma la fotografia di una minoranza privilegiata nell’immagine del tutto». E ancora: «rispetto a vent’anni fa quando ho iniziato a porre il tema della sostenibilità come una delle priorità dell’architettura, questa parola va oggi rivista, o meglio l’uso di questa parola è da rivedere. La mia percezione è che, in questo tempo, la parola sostenibilità sia diventata un vestito che va sempre bene, in ogni occasione, un abito alla moda. O anche che sia una di quelle parole usate perché il discorso possa fruire meglio».
Un mondo sostenibile non è quello in cui si piantano alberi in terrazze di cemento, pensando di riqualificare e di rinaturalizzare in questo modo i centri cittadini e le periferie, così da chiamare questo processo “architettura sostenibile”, spiega Mario Cucinella, questa invece è una foglia di fico pseudo ambientalista con cui copriamo la nostra mancanza di progettualità, ancorati come siamo a un modello ormai senza sbocco. Questo modello più che rappresentare un nuovo rapporto con la natura è invece ecologismo da moda, un’altra forma di dominio che non enuncia soluzioni di comodo: veri e propri alibi pensati per continuare a cementificare piuttosto che puntare verso una nuova architettura basata su materiali ecologici e sostenibili indirizzata non tanto al potere sulla natura quanto a un’alleanza con essa.
Il tema è proprio questo: «Per noi architetti la questione non è solo inserire le piante negli edifici per renderli intelligenti, gli edifici cioè non diventano intelligenti inserendo le piantine nei balconi, piuttosto è importante individuare cosa ci insegnano le piante per creare edifici intelligenti. Se le piante ci devono insegnare qualcosa noi dobbiamo essere capaci di trasformarle in architettura. Sono due visioni diverse, che sul mercato si traducono in due paradigmi differenti il mio è quest’ultimo».
Gli edifici non diventano intelligenti inserendo le piantine nei balconi, piuttosto è importante individuare cosa ci insegnano le piante per creare edifici intelligenti
Mario Cucinella – architetto
La scommessa dell’architettura oggi è, per Cucinella, quella di essere coscienti che l’edilizia produce il 40% delle emissioni di CO2 e dall’altro aver presente la necessità che in alcune aree del mondo bisogna rapidamente dare alloggio a circa 3 miliardi di persone senza distruggere l’ecosistema. Tecnica, consumi, materiali devono essere urgentemente riparametrati non più solo sul rapporto costi benefici per l’uomo ma anche per la biosfera. La casa dovrà essere sostenibile e accessibile. Sostenibile perché come abbiamo visto, nei prossimi 15 anni, nel mondo, costruiremo in termini di quantità la metà di quello che abbiamo finora costruito, come costruiremo sarà questione inderogabile. Accessibile perché la casa non è un oggetto di lusso ma una necessità e un bisogno. Il tema della casa pubblica, centrale nel dopoguerra, sottolinea Cucinella, è completamente sparito dalla nostra riflessione e dall’agenda politica. La delega ai privati della costruzione di case sociali (il cosiddetto social housing) è stata una grande illusione. Solo lo Stato, infatti, può sostenere investimenti che hanno un ritorno paziente.
Vorrei essere un portatore di cura
Non sono necessari grandi progetti però, scrive Cucinella, perché: «Prendersi cura della città vuol dire prendersi cura della scuola, del carcere, dello spazio pubblico, anche con piccoli gesti. Quei piccoli gesti di cui la politica si è dimenticata. I piccoli gesti in una città sono anche la piccola manutenzione, come lo stato del marciapiede, il decoro dei parchi, delle panchine, l’accoglienza degli spazi pubblici per anziani e per i bambi. Vorrei essere un portatore di cura e vorrei che tutto il mio mondo si identificasse in questo ruolo, che riveste l’architettura come la disciplina del prendersi cura, dell’accudimento anche delle piccole cose».
Affinché le trasformazioni «assumano consistenza la pratica dei piccoli progetti deve sostituirsi alla vacua teoria. Non servono grandi manifesti, o ulteriori piani urbanistici, ma piccole prassi progettuali in cui in grado di trasformare le periferie da aree della marginalità a cinture verdi impregnate di quell’energia di chi ci abita, che significa semplicemente: prendiamoci cura di quello che è stato fatto e delle persone. Bisogna aggiungere pillole di bellezza che diventino contagiose di qualità».
Libro fortemente consigliato non solo agli architetti, urbanisti e studenti, ma anche a tutti gli amanti dell’avventura umana.
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