Formazione
Tiro a segno Darfur
Si chiamano Janjaweed: giovani, spietati e a cavallo, armati fino ai denti, saccheggiano tutto ciò che incontrano.
«Il governo ci ha bombardati con gli Antonov, i Mig e gli elicotteri, e 140 bombe hanno colpito Fara Wiya. I Mig miravano le scuole e i pozzi, ma hanno distrutto anche la clinica. Dopo il bombardamento, sono sopraggiunti 2mila soldati con carri armati. Assieme ai Janjaweed, armati di kalashnikov, hanno circondato il villaggio, saccheggiato i negozi e incendiato le case».
A dare il benvenuto nell?inferno del Darfur è un abitante di Fara Wiya, borgo del Darfur settentrionale (ovest del Sudan), costretto nel giugno 2003 a lasciare casa e parenti in seguito all?ennesimo, terrificante attacco sferrato dall?esercito sudanese e dai miliziani arabi Janjaweed contro i civili. La sua testimonianza, raccolta il 25 febbraio dai membri di Human Rights Watch in uno dei tantissimi campi profughi allestiti in Ciad, rende l?idea dei mezzi mortali impiegati in una ?guerra civile? che dal febbraio 2003 ha fatto oltre 30mila vittime e 1,2 milioni di sfollati, costringendo 130mila persone a rifugiarsi sul territorio ciadiano.
A fare le spese di quella che viene definito dall?Onu «la più grande catastrofe umanitaria in corso nel mondo» sono civili appartenenti alle etnie Fur, Zaghawa e Massalit, dilaniati dallo scontro a colpi di bombardamenti, kalashnikov, fucili G-3, lanciamissili o macete tra il regime centrale di Khartum (e i loro accoliti Janjaweed, milizie armate giovanili reclutate nelle tribù nomadi del Nord Darfur) e i ribelli darfuriani dell?Armata di Liberazione del Sudan (Mls) e del Movimento per la giustizia e la libertà (Mje). Le armi quindi la fanno di nuovo da padrone in un conflitto apparentemente simile a tanti altri in Africa subsahariana, ma diverso per due motivi: il primo, un governo implicato in massacri di civili con armi da guerra; il secondo, il ruolo di attori vecchi e nuovi della geopolitica internazionale, attratti dalla più preziosa delle materie prime: il petrolio.
Per ora, a preoccupare, seppur tardivamente, parte della comunità internazionale sono le armi e la crisi umanitaria in cui sta sprofondando il Darfur. Protagonisti di recenti visite in Sudan, il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, il Segretario di Stato americano, Colin Powell, il segretario di Stato francese agli Affari esteri, Renaud Muselier e il ministro tedesco degli Esteri, Joschka Fischer hanno chiesto al presidente sudanese Umar Hassan al-Bashir di disarmare le milizie Janjaweed. Ma alle promesse del presidente sudanese non sono seguiti i fatti. Peggio, Khartum ha negato di sostenere militarmente i Janjaweed.
Eppure, i rapporti di Amnesty International e di una delegazione statunitense, pubblicati il 6 luglio, nonché quello di Human Rights Watch (aprile 2004), denunciano il flagrante sostegno militare del regime sudanese. Secondo Hrw, «Khartum ha reclutato 20mila Janjaweed che paga, arma, veste e con i quali conduce operazioni congiunte contro-insurrezionali». Nel Nord Darfur, «gli aerei del governo sudanese hanno bombardato città e villaggi, giorno e notte, spesso anticipando di poco le offensive terrestri dei soldati sudanesi e degli Janjaweed». Nelle province sud-occidentali, Khartum si affida maggiormente a interventi via terra, fornendo ai Janjaweed armi leggere tipo «kalashnikov, fucili G-3 e armi belghe, oltre a mezzi di comunicazione di ultimo grido quali i telefoni satellitari Thuraya». In molti casi, gli attacchi sono effettuati in assenza di resistenza da parte dei ribelli, spingendo così Hrw a denunciare «una vera e propria pulizia etnica» nel Darfur a opera del governo sudanese. A differenza dei membri di Hrw, la delegazione americana condotta a fine giugno dai repubblicani Sam Brownback e Frank Wolf è entrata nel Darfur per una missione di tre giorni. Secondo le testimonianze da loro raccolte, «i Janjaweed sono in possesso di fucili G-3» e «uniformi dell?esercito sudanese» per compiere azioni «a cavallo o su jeep militari». Il regime di Khartum attacca anche i villaggi del Darfur con «Antonov sovietici ed elicotteri da combattimento guidati da piloti sudanesi».
La complicità tra Janjaweed e Khartum è resa evidente, secondo il rapporto, dalla «presenza di un accampamento Janjaweed a poche centinaia di metri da una sede dell?esercito regolare sudanese nei pressi dell?aeroporto di Geneina (Ovest Darfur), dove c?erano due elicotteri di combattimento e un Antonov».
Ed ecco la domanda: queste armi, specie quelle leggere, da dove provengono? Difficile stabilirlo, assicura la maggior parte degli specialisti contattati da Vita. A titolo di esempio, Leslie Lefkow e Jerema Rone, autrici del rapporto di Hrw, parlano di «armi nuove belghe». Intanto, nei rapporti governativi al Parlamento belga (relativi al periodo 1998-2003) non appare nessuna transazione verso il Sudan. «Il fatto che il rapporto citi armi belghe può significare ?semplicemente? che siano in circolazione modelli di armi belghe», spiega Claudio Gramizzi del Grip, un gruppo di ricerca e d?informazione sulla pace e la sicurezza con base a Bruxelles. «La FN Herstal, principale produttore belga di armamento leggero, ha concluso una serie di contratti per produzione sotto licenza con Paesi terzi», prosegue Gramizzi, secondo il quale «ammettendo che tra le armi in possesso ai Janjaweed ci siano fucili FN FAL, è impossibile determinare se si tratti di armi prodotte in Belgio o fabbricate altrove».
Vista la difficoltà di stabilire da dove e come le armi giungono nel Darfur, il Consiglio di sicurezza dell?Onu sta vagliando una risoluzione degli Stati Uniti tesa a imporre un embargo sulle armi destinate ai Janjaweed. Ma il progetto ha già suscitato le critiche di Amnesty International. Nel ricordare «l?embargo sulle armi imposto dal 1994 dalla Ue contro il Sudan», Amnesty sostiene che «le Nazioni Unite devono imporre un embargo sulle consegne di armi non solo ai Janjaweed, ma anche al governo sudanese». Una considerazione opportuna quella di Amnesty – che nel suo rapporto del 19 luglio accusa Khartum di crimini contro l?umanità nel Darfur – se si pensa che il governo sudanese firma contratti militari con Paesi noti per la loro scarsa sensibilità ai diritti umani, tra cui la Russia, con la quale il regime avrebbe firmato a maggio un accordo militare che secondo il caporedattore della rivista militare TTU Monde arabe, Rachid Said Yagoub, «prevede l?acquisto di carri T-80, veicoli di combattimento tipo BPM-3 e BTR-90». «Questo accordo», ricorda Yagoub, «è stato preceduto da altri contratti siglati nel 2001 che hanno visto la consegna a Khartum di 12 MiG-29 tra dicembre 2003 e luglio 2004». Negli stessi mesi, fonti francesi riferiscono di un accordo tra i governi indiano e sudanese, stretti durante una visita ufficiale in India dal ministro della Difesa sudanese, generale Bakri Hassan Saleh per l?importazione di armi leggere e batterie antimissili russe in cambio di concessioni petrolifere. «Non posso confermare la notizia», dice Yagoub, «ma che sia vera o falsa ci conduce al cuore del problema sudanese, ovvero il petrolio».
Il Sudan ne è pieno. Sia nel Sud, dove i recenti accordi di pace siglati tra Khartum e i ribelli dello Spla (Esercito di liberazione popolare del Sudan) dovrebbero chiudere 21 anni di conflitto, sia nel Darfur, dove secondo Yagoub «il governo sta attuando la stessa tattica impiegata nel Sud: costringere i civili a insediarsi nei centri urbani per poi avviare lavori di perforazione del suolo da subappaltare a multinazionali straniere». Che rendono: secondo l?autorevole mensile The World Today, le rimesse petrolifere hanno consentito a Khartum d?incassare 805 milioni di dollari nel 2002, ben 258 in più rispetto al 2000, e permesso di acquistare elicotteri d?attacco e armi per intensificare la guerra e ?proteggere? nuove aree petrolifere.
In materia di terreni da rivendere al miglior offerente, «Cina e India appaiono favorite rispetto agli Usa», prosegue Yagoub. «Le multinazionali statunitensi del petrolio sono state le prime ad affacciarsi in Sudan. Negli anni 70 Chevron e Texaco investirono un miliardo di dollari nel Sud scoprendo cospicue riserve petrolifere. Ma con l?esplodere del conflitto nel 1983 si ritirarono, lasciando mano libera ad altri Paesi, come Cina e India. Oggi, Texaco e Chevron vogliono recuperare». Forse per questo Washington non preme sull?embargo sulle armi da imporre al Sudan? «L?amministrazione Bush è spaccata», spiega Yagoub, «tra l?ala dura di Condoleeza Rice, che vuole rovesciare il regime, e l?ala moderata di Powell che concede la sopravvivenza al Paese in cambio di informazioni nella lotta al terrorismo».
Nel frattempo, sono le società cinesi, indiane o malaysiane a spartirsi il petrolio. La China national petroleum corporation (Cnpc) possiede il 40% della Greater Nile petroleum operating company (Gnpoc), una joint venture della quale fanno anche parte l?indiana Ongc Videsh Ltd (OVL), il colosso malaysiano Petronas carigali overseas Sdn Bhd (30%) e la società petrolifera pubblica sudanese Sudapet (5%).
A differenza di quanto succede nelle democrazie occidentali, queste società sono meno soggette a eventuali pressioni della società civile. Per questo, la OVL ha rilevato nel marzo 2003 il 25% della Gnpoc dalla canadese Talisman Energy, costretta ad abbandonare il Sudan perché accusata dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani di aver costruito piste utilizzate dall?aviazione militare sudanese nel corso dei bombardamenti nel Sud Sudan. Di recente, Ongc Videsh starebbe trattando con il governo sudanese per recuperare il 35% delle concessioni del blocco petrolifero del bacino di Muglad attualmente in mano alla francese TotalFinaElf, pronta a farsi da parte per le tensioni etniche che, nonostante gli accordi di pace, affliggono il Sud Sudan.
Non è un caso, quindi, se alle Nazioni Unite nelle ultime settimane Cina e India hanno espresso qualche reticenza nell?imporre sanzioni al regime di Khartum.
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