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Terzo settore, quel bene che non fa patrimonio
Una nota delle ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, in risposta a un quesito di Regione Campania, precisa che gli asset immateriali di un ente di Terzo settore - dal capitale umano, relazionale, alla cultura organizzativa - non hanno valore patrimoniale. Un limite all'azione del non profit
Dopo la stagione dei grandi impianti normativi (legge delega, decreti legislativi) la riforma del terzo settore prosegue soprattutto per via regolamentare. Sentenze, note, pareri, scandiscono un percorso ancora non terminato rispondendo a questioni puntuali che in qualche caso “fanno legge”, assumendo una valenza di sistema.
Il quesito al ministero
Un caso rilevante in tal senso è la nota 15849 pubblicata lo scorso 19 novembre dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali a fronte di un’istanza presentata dalla Regione Campania. Al ministero è stato richiesto se nella determinazione del patrimonio minimo necessario per assumere la qualifica di ente di Terzo settore e quindi potersi iscrivere al Registro nazionale-Runts sia possibile mettere a valore, non solo risorse monetarie, ma anche beni immateriali. La richiesta è interessante perché chiama in causa quegli “intangible assets” di cui le organizzazioni sociali (e non solo) possono disporre, per esempio la proprietà intellettuale relativa a marchi e standard di qualità, schemi di rendicontazione, modelli formativi, ecc.
La risposta del ministero è stata negativa e l’argomentazione proposta è la seguente: visto che il Terzo settore è orientato a obiettivi di interesse generale e al “c.d. bene comune” ha bisogno di adeguate garanzie materiali (leggi monetarie) per perseguire la sua missione. Niente da fare quindi per gli intangibili: non possono essere valorizzati come patrimonio, al più si materializzano in forma di beni e di servizi.
Una risposta che va oltre
Non è solo una questione giuridica comunque.
Basti pensare a come in ambito finanziario – anche in quello orientato a finalità sociali e d’impatto – quando si tratta di valutare il merito di credito e il ritorno dell’investimento si preferisce guardare ai classici asset materiali “immobili” (soprattutto se considerati come garanzia).
Eppure in questi anni si sono moltiplicati gli sforzi per catturare il valore di risorse intangibili che sempre più spesso fanno la differenza in termini trasformativi.
Basti pensare a tutti quei modelli di intervento che fanno empowerment di persone e comunità fragili (inserimento lavorativo, comunità educanti, ecc.), dove le altre istituzioni – Stato e mercato – presto falliscono o si ritirano.
Patrimoni e limiti
Che ne sarà di questi intangibili se poi alla prova dei fatti non verranno presi in considerazione da regolatori e finanziatori?
La questione diventa ancor più cruciale considerando che, per le organizzazioni di Terzo settore, il patrimonio rimane strettamente legato ai contesti dove si accumula e viene condiviso. Ecco perché non riconoscerlo nella sua interezza significa, di fatto, impoverire quel terzo pilastro della società che si sta faticosamente costruendo.
Nella foto di apertura, dell’Agenzia LaPresse, il rifugio di Progetto Arca per i fragili della Stazione centrale a Milano.
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