Famiglia
Ferrario, il gusto dello sguardo
Recensione del film "Dopo mezzanotte" di Davide Ferrario (di Maurizio Regosa).
di A. Capannini
Sono molti anni che Martin Scorsese, Peter Bogdanovich e altri ripetono che tutto è già stato filmato e che si può, al massimo, ricreare bene immagini già viste. È la cosiddetta poetica della nostalgia il cui studioso-cantore è, da noi, l?ottimo Franco La Polla.
In questo filone va letto Dopo mezzanotte. Davide Ferrario vi si inserisce con sensibilità discreta e a tratti poetica, con una memoria cinefila molto nouvelle vague, recuperando suggestioni a ritroso, dal secondo e dal primo cinema (echi di stile, soluzioni tecniche come la chiusura a iride, situazioni comiche e personaggi, fra tutti il nume Buster Keaton).
Nasce così una commedia dall?intreccio delicato, molto garbata, ben recitata (un bel gruppo di giovani, fra cui spicca Giorgio Pasotti), piuttosto prevedibile (l?amore si complica e il rapporto diviene a tre, come in Jules e Jim di François Truffaut). Ma prevedibile quanto serve perché lo spettatore possa concentrarsi sulle immagini, il taglio delle inquadrature, le luci.
Giacché il pregio principale di questo film è, a mio parere, il senso della (ri)scoperta. Ambientato a Torino, fra l?imponente Mole Antonelliana, che ospita il Museo del cinema, e un tristissimo quartiere periferico, Dopo mezzanotte riconduce il pubblico al gusto dello sguardo: gli mostra spezzoni di pellicole inizio Novecento, spingendolo a fantasticare su eventi registrati da operatori che con semplice umiltà si mettevano ai margini della strada e lavoravano di manovella… O rimette in scena momenti clou, tinti di pathos fittizio, facendo sì che si possa sorridere di quelle immagini e del tramonto della loro verità. Sovente si tratta di inserti scherzosi funzionali al plot (svelano uno stato d?animo, suggeriscono scelte o emozioni dei personaggi, come per certi versi in Dreamers di Bernardo Bertolucci e, prima ancora, Mon oncle d?Amerique dell?insuperato Alain Resnais); altrove i reperti archeologici costruiscono parallelismi non scontati (la vita quotidiana quanto è cambiata in un secolo?).
Con il bianco e nero delle origini (ritoccato digitalmente), il cinefilo, un po? nostalgico e ammiccante Ferrario ripropone con levità un?idea di cinema non forzosamente e piattamente narrativa, in cui agiscono altre categorie: la metropoli come personaggio, gli ambienti e la loro efficacia suggestiva, lo spazio che organizza i rapporti e i significati (e da Jean-Luc Godard la memoria, se vuole, può arrivare sino al primo Wim Wenders).
Maurizio Regosa
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