Analisi

La prospettiva storica che serve per capire i mille giorni di guerra in Ucraina

Chi ricalca e dà credito alle tesi di Putin dimentica cosa ha significato la disgregazione dell'Unione Sovietica e dei differenti destini degli Stati Baltici rispetto a Ucraina, Georgia, Moldavia, Armenia, Azerbaigian e Bielorussia

di Paolo Bergamaschi

Mille giorni di guerra non sono certamente un traguardo da celebrare perché i drammi non si celebrano ma, tutt’al più, si ricordano in raccoglimento o si commemorano con tristezza. Quello dell’Ucraina, purtroppo, è ancora in corso anche se nelle ultime settimane qualche timido tentativo di dialogo, parola forse azzardata, è stato abbozzato.

La guerra nel Donbass, in realtà, è iniziata nella primavera del 2014; dura, quindi, da almeno 4mila giorni nell’indifferenza della maggior parte delle opinioni pubbliche europee fino al 24 febbraio 2022, data in cui è ufficialmente scattata “l’operazione militare speciale” che nella Federazione Russa non si può chiamare con il suo vero nome pena l’arresto e la condanna al carcere. A Mosca una narrativa diversa dalla verità ufficiale fornita dal Cremlino non è possibile; da noi, per fortuna, sì.

In questi anni opinionisti di ogni genere, la maggior parte dei quali non hanno mai messo piede a Kiev e dintorni, si sono sbizzarriti in commenti spesso non supportati da fatti, e tanti di questi hanno ricalcato e dato credito alle tesi di Vladimir Putin.

Vale la pena, quindi, fotografare la situazione rammentando i dati inequivocabili che ci ha consegnato la storia. Delle 15 repubbliche che formavano l’Unione Sovietica 9 si trovano in Europa e 5 in Asia: la Federazione Russa che si estende a cavallo dei due continenti. Quando si sgretolò l’Urss, alla fine del 1991, ognuna di queste andò per la propria strada dichiarando l’indipendenza.

Quelle sul suolo del Vecchio Continente, in particolare, hanno seguito percorsi diversi. L‘aspirazione delle tre Repubbliche Baltiche di integrarsi nelle strutture euro-atlantiche fu accolta da subito a Bruxelles come una sorta di compensazione per il torto subito da queste nel 1939 con il Patto Molotov-Ribbentrop che le aveva condannate a 50 anni di durissima occupazione sovietica.

Le altre sei vennero abbandonate in un limbo geopolitico nonostante tre di queste, Georgia, Moldavia e Ucraina, manifestassero fin da allora una forte spinta ad approfondire le relazioni con l’Unione europea. Allo stato attuale si può affermare che la transizione da un’economia di piano a un’economia di mercato e quella politica da una dittatura di partito a una democrazia liberale nell’ambito del processo di allargamento governato dall’Ue per Lituania, Estonia e Lettonia hanno funzionato mentre per le altre, che non hanno avuto questa opportunità, sono stati anni di tumultuoso caos e devastante instabilità.

È in questo contesto storico che si sviluppa la politica di destabilizzazione controllata congegnata da Mosca per limitare e condizionare la sovranità delle nuove repubbliche indipendenti ricompattando sotto altre spoglie quello che era l’impero sovietico. La guerra nel Donbass di cui è vittima l’Ucraina è solo l’ultima dopo quelle in Abchazia, Ossezia Meridionale, Transnistria e Nagorno Karabakh negli anni Novanta di cui sono vittime Georgia, Moldavia e Azerbaigian con il coinvolgimento dell’Armenia.

In tutti questi conflitti c’è la mano della Russia che li spegne o li riattizza a seconda della convenienza del momento. A parte quello in Nagorno Karabakh fanno leva sulle rivendicazioni di minoranze russofone manovrate dal Cremlino. Anche negli Stati baltici ci sono importanti minoranze russofone ma il loro precoce ingresso nell’orbita occidentale impedisce al regime cleptocratico-mafioso al potere in Russia di sfruttarle per riprodurre il terrificante scenario applicato alle altre ex repubbliche dell’Urss sul suolo europeo con l’eccezione della Bielorussia che non aveva bisogno di alcun intervento esterno per il semplice fatto che il dittatore Aljaksandr Lukashenko aveva già affidato a Mosca le sorti del proprio Paese.

In conclusione non si può isolare il conflitto ucraino da quanto avviene o è avvenuto in quello che era lo spazio sovietico. Oggi un pezzo di Unione Sovietica fa parte dell’Unione Europea. Tra recriminazioni e rimpianti i cittadini di Ucraina, Georgia, Moldavia, Armenia, Azerbaigian e Bielorussia guardano a come vivono gli ex concittadini sovietici in Lettonia, Estonia e Lituania e viceversa. Passato comune, presente profondamente diverso. A Kaja Kallas, ex primo ministro dell’Estonia e prossimo Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Ue, e a Andrius Kubilius, ex primo ministro della Lituania e prossimo Commissario europeo alla Difesa, spetta un compito davvero arduo. Chissà se sapranno intercettare anche le aspettative e i sentimenti degli ex concittadini sovietici dei Paesi vicini.           

Foto La Press: Mariupol (Ucraina)               

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