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Servizi pubblici collaborativi: per un welfare più capace

Un saggio di Ezio Manzini e Michele D'Alena dimostra anche con dati empirici la maggiore efficacia di un welfare costruito "assieme": enti pubblici, cittadini e soggetti sociali. La recensione

di Stefano Arduini

Gli autori, il professore del Politecnico di Milano Ezio Manzini e Michele D’Alena, coordinatore dell’Alleanza Transizioni Giuste da poco nominato assessore alla Partecipazione del comune bolognese di San Lazzaro di Savena, lo dichiarano subito: «Il contributo specifico di Fare assieme è la proposta di una nuova generazione di servizi pubblici: servizi che rispondano a bisogni sociali stimolando e supportando la creazione di nuove comunità. Servizi il cui compito è (anche) quello di rigenerare il tessuto sociale. Perché la socialità è un bisogno umano ed è determinante per lo stato di salute dei cittadini. Ma, soprattutto, perché l’esistenza di un tessuto sociale ricco e dinamico è la condizione necessaria per affrontare in modo collaborativo molti dei grandi problemi con cui oggi ci dobbiamo confrontare. Riconoscere che le persone hanno al tempo stesso la necessità e il diritto di essere attive e collaborative implica un ruolo rinnovato per il Pubblico. Cioè per l’insieme di chi opera per l’interesse generale». 

Il ragionamento parte da un nodo che i lettori di VITA ben conoscono: di fronte a bisogni sociali crescenti e sempre meno standardizzabili «i servizi pubblici non sono in grado di rispondere alla domanda sociale emergente non solo perché vengono tagliati, ma anche perché sono stati costruiti su un modello di società che non esiste più». Il confronto (a cui la politica continua in larga misura a sottrarsi) sulla quantità e l’efficienza della spesa pubblica va quindi collocato in una prospettiva di innovazione sociale ed amministrativa. La chiave di volta è quella di considerare il servizio pubblico all’interno di un paradigma sociale nuovo: quello della collaborazione. Scrivono gli autori: «La nostra proposta  è che oggi debba emergere un’inedita generazione di servizi pubblici che sia in grado di stimolare e supportare la creazione di nuove reti sociali. E quindi di nuove comunità. Il che significa anche che deve emergere una nuova generazione di funzionari pubblici: non più solo erogatori di servizi predefiniti, ma attivatori di coesione sociale, vicinanza, ascolto e cura». 

Con questo lavoro Manzini e D’Alena hanno il merito di dare corpo a un processo ancora carsico e minoritario (forse meno di quanto si creda), accendendo un faro su quei contesti che oggi sono l’avanguardia dei servizi pubblici collaborativi: le biblioteche, focus trattato con Antonella Agnoli (Capitolo 7); le scuole, con Andrea Morniroli e Silvia Mastrolillo (Capitolo 8); le case della salute con Franco Prandi, Benedetta Riboldi e Franco Riboldi (Capitolo 9); i beni culturali con Roberta Paltrinieri (Capitolo 10); le case di quartiere, con Ilda Curti ed Erika Mattarella (Capitolo 11); gli spazi sociali, con Carlo Andorlini (Capitolo 12); i centri culturali con Roberta Franceschinelli e Cristina Alga (Capitolo 13). Ma come si “accendono” queste esperienze collaborative? Scrivono gli autori: «L’iniziativa può partire da una scuola, da una biblioteca pubblica, da un’organizzazione del Terzo settore, da un gruppo informale di cittadini organizzati, dal gestore di un bar (pensiamo per esempio quanto siano importanti i bar all’interno del “movimento no slot”, ndr); ma per funzionare in modo collaborativo, per produrre valore sociale e per durare nel tempo, ognuno di questi autori prima o poi ha bisogno degli altri». Non solo. Ancora Manzini e D’Alena: «…I servizi pubblici collaborativi sono espressione di una nuova idea di Pubblico: un Pubblico che ha come missione anche il riconoscere, stimolare, supportare, amplificare le risorse diffuse nella società». Gli autori non arrivano a sciogliere in modo radicale la sovrapposizione fra Pubblico e Statale, ma il punto è esattamente questo: i servizi pubblici collaborativi non solo determinati esclusivamente dalla macchina amministrativa. 

Per essere tali devono allargare la responsabilità ad altri soggetti sociali in una concezione allargata di servizio pubblico che, fondandosi sul “diritto alla collaborazione”, diventano di fatto servizi sociali partecipati. Gli esempi contenuti nel libro dimostrano che tutto ciò è possibile, che il cambio di paradigma è una scelta politica, ovvero della polis e quindi non solo della pubblica amministrazione. E qui si pone una questione basilare: istituzioni, Terzo settore e mondo dell’innovazione sociale sono in grado di fare fronte comune? La tesi degli autori è che è l’innovazione sociale a «generare nuovi terreni per la politica e la democrazia» (e non viceversa). È il caso delle comunità energetiche o delle comunità educanti. Movimenti, entrambi, nati prima nella pratica che nella politica e, a ruota, nelle istituzioni e nelle norme.  Risultato? Per modificare ed efficientare le politiche pubbliche il Terzo settore non si può limitare a chiedere (risorse), ma deve anche dare (modelli) e costruire competenze.

Foto di apertura: Il manifesto del punto di Comunità “I Morticelli” nel centro storico di Salerno

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