Salute

Pensieri dal paese-lazzaretto

Viaggio in Zimbabwe

di Riccardo Bonacina

Lo Zimbabwe è il Paese africano più colpito dalla sindrome da Hiv. La vastità della catastrofe è resa dai numeri: il 30% degli zimbabwani (12 milioni di abitanti stimati), cioè circa 3 milioni e mezzo di persone, ha il corpo segnato dal virus, così come il 50% delle donne in gravidanza, e il 25% dei residenti tra i 15 e i 49 anni. L?Hiv ha già reso orfani più di 600mila bambini. La spesa media pro capite per la sanità è di 12 dollari all?anno (in Europa è di circa 2mila euro), cifra che non consente di curare alcunché, figuriamoci l?Aids. L?aspettativa di vita è in costante calo: era 57 anni negli anni 80, 40 anni nel 2001, 37 anni è quella stimata nel 2004! La produttività economica è crollata di un terzo negli ultimi cinque anni e, nello stesso periodo, la povertà è raddoppiata. Il Fondo monetario internazionale stima un?inflazione al 650%, e una disoccupazione oltre il 70%. Fin qui una sintesi della scheda Paese come la può comporre un giornalista accorto e ben informato. Ma provate ad andarci in Zimbabwe e questi dati, già di per sé orribili, diventeranno nel giro di poche ore insostenibili sino a farvi star male, nel fisico e nella coscienza, o nella testa se volete. Tanto è insopportabile il peso dell?ingiustizia che aumenta incontro dopo incontro, tanta è la quantità di dolore. Così è capitato anche a me, invitato dai cooperanti del Cesvi per un reportage sul terreno che vi proporremo nei prossimi numeri. è bastata una giornata ad Harare, nel quartiere Mbare, una volta attrazione turistica della capitale e ora un vero e proprio inferno e lazzaretto, o nelle baraccopoli della periferia. Accompagnato da Comborai, un?insegnante, e Shepard un laureando, volontari di Mashambanzou, un?organizzazione non governativa locale, e dai cooperanti del Cesvi, Francesco, logista, Micol e Silvia, dottoresse, Emily, greca, esperta coordinatrice di interventi umanitari. Provate ad entrare nei loculi dei Matapi flex a Mbare, monolocali di 25 metri quadrati con una decina di persone ammassate, spesso famiglie fatte solo da minori. Provate a guardarli negli occhi, a respirare l?aria densa di puzze d?ogni tipo e di fumo, poiché manca elettricità e gas e il fuoco è acceso su quel che resta di un pavimento. Provate ad entrare nel Crash, così è soprannominato il quartiere, e vedere 100 orfani che mangiano in silenzio, e tristissimi, la sadza, polenta bianca di mais. O in una baracca, anzi peggio, con una ragazza di 16 anni malata di Aids perché violentata, una figlia neonata in spalla, quattro fratellini intorno, e nessun altro. Ti si strappa il cuore e ti senti una vera merda, tu e tutti quelli che non solo non vogliono negoziare il proprio stile di vita, sprechi compresi, ma che neppure mantengono le promesse fatte anni e anni fa, a proposito di quote di Pil da destinare in aiuti, di Global found, eccetera. Il Pil dello Zimbabwe è di 6 miliardi di dollari l?anno, il 6% di quanto è costato un anno di guerra in Iraq. Il costo delle terapie (se si facessero) sarebbe di 36 miliardi di dollari con un?incidenza del 600% sul Pil del Paese. Come dire, l?intervento farmaceutico e di cura, allo stato attuale, è da escludere. E loro, le formichine di Mashambanzou e del Cesvi, ti mostrano la casa di accoglienza per i malati di Aids, 20 posti per adulti, sette per bambini, o la casa per i bimbi di strada, o i risultati dei primi 20 trattamenti con antiretrovirali generici acquistati in India (i primi in Zimbabwe!). Io mi ribello, ma a che serve? è un nulla! è meno che una goccia in un mare infinito di bisogni e di assenza di qualsiasi prospettiva. Che fate qui, lasciate perdere, vorrei gridare a chi mi accompagna. Silvia, 29 anni, mi soccorre. è qui da pochi mesi ed è riuscita a metter su un sistema di relazioni e di scambio d?informazioni tra 11 presidi ospedalieri. Mi dice: “Anch?io stavo male i primi giorni, poi ho imparato a liberarmi da una grande tentazione e presunzione: quella di pensare di poter salvare qualcuno. Non sono qui a espiare nessun senso di colpa, sono qui a fare il mio lavoro, come lo farei a Milano. So che facendo così la mia presenza è utile, anche se ho imparato a veder gente morire davanti a me senza che io possa far nulla”. Ed Emily, 46 anni, mi rimprovera: “è vero, la nostra è un piccola goccia, ma serve. Serve a tener viva la speranza in noi e in chi incontriamo. Non è possibile fare nessun passo indietro rispetto a questo e rispetto a noi. Questa è l?unica cosa non negoziabile”.


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