Testimoni

Don Ceccolini, cappellano a Casal del Marmo: «Il carcere minorile? Pieno di ragazzi soli e poveri»

«Sono giovani che non hanno figure di riferimento sia in famiglia che nei luoghi educativi: nella scuola, nelle parrocchie e in tutti gli ambiti che i ragazzi frequentano all'esterno». L'intervista al prete dell'istituto romano

di Ilaria Dioguardi

«Sono 13 anni che sono presente nel carcere penale minorile Casal del Marmo di Roma. Dal 2017 sono cappellano, gli anni precedenti lo frequentavo da seminarista. C’è stato un lento inevitabile declino». A parlare è don Nicolò Ceccolini, classe 1987.

Don Ceccolini, perché parla di un «lento e inevitabile declino»?

Sembra non aver fine questo declino delle carceri. Quando ho cominciato, ho visto il primo cambiamento dopo l’introduzione all’interno del carcere minorile dei giovani adulti. Nel 2014 c’è stata una modifica di legge che ha previsto la presenza dei ragazzi con i reati da minorenni, che però potevano rimanere fino a 25 anni (il decreto-legge n. 92 del 2014, ndr). Questo ha creato un primo scossone per il fatto di avere, a volte, la maggior parte dei giovani adulti nei circuiti dei minori. Inoltre, si sono ritrovati tutti questi ragazzi neo maggiorenni senza far nulla tutto il tempo. La scuola secondaria di primo grado spesso l’avevano terminata in una precedente carcerazione. A Casal del Marmo ci siamo inventati un’attività, per alcuni di loro.

Quale attività?

Ci siamo inventati un pastificio adiacente al carcere minorile, pastificio Futuro, per poter dar lavoro ai ragazzi neo maggiorenni. Attualmente sono occupati cinque giovani, affiancati da un’equipe educativa, è gestito dalla cooperativa Gustolibero. Il pastificio è aperto dal lunedì al venerdì, mezza giornata, nel punto vendita le persone possono venire ad acquistare i prodotti. I ragazzi curano tutta la produzione e la vendita.

Si riescono a fare delle attività oggi, in carcere?

Pur con tutta la buona volontà (penso anche ai direttori che si sono alternati in questi anni), senza la possibilità della sicurezza, del numero di agenti sufficiente per garantirle, le attività sono tutte ferme. Riusciamo a far fare delle attività formative, come il corso di parrucchiere e di giardinaggio, grazie alla formula dell’Articolo 21 che abbiamo dovuto richiedere con forza, altrimenti non si può far nulla. All’interno del carcere, prevede che i ragazzi non abbiano gli agenti che li accompagnano, ma sono affidati agli operatori per andare a svolgere le attività.

Don Nicolò Ceccolini

Quanti sono i ragazzi nell’istituto?

Sono circa 65 (la capienza di Casal del Marmo è di 56, ndr). Il sovraffollamento c’è soprattutto al femminile, dove in pochi giorni sono passate da otto ragazze a 16.

Il sovraffollamento è anche una conseguenza del Decreto Caivano?

Una stretta sicuramente c’è stata, è innegabile un innalzamento dei numeri rispetto a un anno fa. Però io non darei tutta la colpa al Decreto. Penso che le regole ci vogliono. I ragazzi, se arrivano in carcere, è perché prima non hanno avuto regole. A volte, si chiede al carcere di assolvere quello che non è stato fatto prima, si buttano addosso al carcere dei compiti che non può assolvere. Noi abbiamo anche diversi ragazzi psichiatrici, certamente non è quello il luogo dove tenerli. E poi c’è negli istituti minorili (soprattutto da Roma in su) un grande numero di minori stranieri non accompagnati; questo è un fattore che ha creato durante la scorsa estate (e che ancora sta creando) i problemi principali: risse, incendi, evasioni. A me viene sempre in mente un’immagine.

Davanti alle difficoltà poste dai ragazzi, gli adulti si sono sgretolati

Quale?

L’immagine dell’iceberg. I reati commessi da questi ragazzi sono la punta dell’iceberg. C’è tutto un sommerso, una vita vissuta prima che li porta a compiere quel reato. Sono tutti giovani che prima di incontrare il carcere fisicamente, prima di ritrovarsi nelle quattro mura, l’hanno già incontrato prima, in tante altre forme.

In quali forme?

Prima di tutto nella solitudine, che è una delle costanti. Non hanno figure di riferimento sia in famiglia che nei luoghi educativi: nella scuola, nelle parrocchie e in tutti gli ambiti che i ragazzi frequentano all’esterno. Vivono in una grande assenza di figure paterne, materne che l’introducano alla vita. La seconda, è una povertà, che non è solo materiale: una seconda prigione. Ovviamente c’è anche quella materiale: i minori stranieri che arrivano spesso non hanno i vestiti e non hanno nulla. Però mi riferisco soprattutto ad una mancanza di stima, al fatto di non essere considerati, di non essere importanti per qualcuno. La terza, che è anche una conseguenza delle altre due, è una mancanza di speranza. Questi ragazzi sono tutti concentrati sul presente, sull’attimo, senza vedere che c’è un domani.

Negli ultimi mesi sono state tante le tensioni e le rivolte negli istituti penali, soprattutto minorili, anche a Casal del Marmo.

Casal Del Marmo di Roma e il Beccaria di Milano sono forse i due istituti che sono stati più in difficoltà in questi mesi. Ho visto che, davanti alle difficoltà poste dai ragazzi, gli adulti si sono sgretolati. Secondo me, per rimettere in piedi questi istituti, prima che lavorare con i ragazzi detenuti, bisogna lavorare col personale, con gli adulti: è necessario fare squadra. Bisogna ripensare il ruolo degli educatori, a volte mi sembrano troppo dei burocrati: si fanno i colloqui 10 minuti per uno, si scrive la relazione, si fa la “domandina”. Bisogna riscoprire una dimensione di gratuità, anche nella figura educativa, che deve essere una persona che sta coi ragazzi anche semplicemente per passare del tempo con loro. Per quello che posso, cerco di dare la priorità a questo, a puntare sull’umanità, sul rapporto personale.

Il carcere è la lente di ingrandimento sulla nostra vita. Un ragazzo che entra in carcere è una sconfitta di tutti

Come riesce ad instaurare un rapporto con questi ragazzi?

Il dialogo è fondamentale. Una volta che si conquista la fiducia, poi si crea un clima molto familiare e si creano dei rapporti molto belli. Vedo che noi adulti siamo un po’ smarriti, impreparati davanti a queste nuove sfide. Il carcere è la lente di ingrandimento sulla nostra vita, sulla vita di tutti. Lì vediamo in piccolo le dinamiche fuori. È un concentrato di quello che c’è all’esterno. Per me un ragazzo che entra in carcere è una sconfitta di tutti. Poi, dentro si cerca di fare un lavoro, di aiutarli a riprendere in mano le proprie vite, a capire quello che è successo. Tra gli ultimi ragazzi che sono arrivati da noi, di 15-16 anni, italiani, c’è stato un aumento di reati per una violenza gratuita, improvvisa, senza ragioni che hanno avuto fuori. E che li ha portati dentro.

Ci parla delle soddisfazioni e dei fallimenti che ha vissuto in questi anni?

Una delle soddisfazioni più grandi è vedere ragazzi e ragazze che si stanno ricostruendo una vita. C’è una ragazza che è arrivata sette anni fa, che si è diplomata all’interno del carcere, ha preso la maturità. Si è iscritta all’Università La Sapienza di Roma e si è laureata in psicologia del marketing. Ora ha un contratto di lavoro. Anche nei momenti più bui, si può vedere che c’è una luce. Quando i ragazzi compiono dei reati, mi rendo conto che in loro si spegne la luce. L’accompagnamento all’interno del carcere serve per accendere una luce più grande rispetto a quella che si è spenta.

Io devo preoccuparmi di seminare dentro il cuore di un ragazzo un seme buono. Se poi porterà un frutto, questo non dipenderà da me

E i fallimenti?

Più che fallimenti, c’è la fatica della percezione di dover ricominciare ogni giorno. Con i miei ragazzi non posso dire che ieri ho fatto un passo, quindi oggi ripartiamo da lì e andiamo avanti: dobbiamo ricominciare dall’inizio. A volte ci sono episodi di una fiducia che è stata tradita, però in qualche modo lo metto in conto: la fiducia gratuita che tu offri, dentro una relazione può essere tradita. Ma se non c’è questa fiducia, non c’è educazione. Ogni giorno porta una possibilità nuova: mi dà tanta gioia, tanta forza. Se ieri la porta era chiusa, oggi può esserci un piccolo spiraglio: con questo spirito affronto le difficoltà in carcere. Poi è chiaro che è una semina a perdere, i risultati immediati non ci sono. Io devo preoccuparmi di seminare dentro il cuore di un ragazzo un seme buono. Se poi porterà un frutto, questo non dipenderà da me.

Ci sono ragazzi che rimangono in contatto con lei, dopo essere usciti dal carcere?

Sì, ci sono. Qualche giorno fa ho ritrovato delle lettere che avevo ricevuto anni fa, scritte da ragazzi molto duri, incattiviti con la vita. Rileggevo delle frasi, come: «Pensavo che tu eri come tutti, per quello inizialmente avevo questo atteggiamento aggressivo, ma poi mi sono ricreduto sul fatto che c’è qualcuno che mi vuole bene». Sono parole che ti riempiono il cuore e ti fanno andare avanti. Lavorare sul fuori è molto importante, stiamo lavorando ad un progetto proprio per questo.

Quale progetto?

In collaborazione con la Diocesi di Roma, realizzeremo un centro a Primavalle, un punto di aggregazione per gli adolescenti del territorio. Penso che, nel mare della solitudine in cui i ragazzi vivono, sia importante poter avere una casa dove venire ed essere aiutati. Spero che si possa inaugurare entro il 21 ottobre dell’anno prossimo perché sarà dedicato a don Pino Puglisi.

Foto in apertura: Sintesi

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