Persone con disabilità

Dalla scuola al lavoro? Sì, ma prima devo capire chi sono

Fondazione CR Firenze presenta gli esiti dei primi quattro progetti sperimentali per favorire il passaggio degli alunni con disabilità intellettiva dalla scuola superiore alla vita fuori dalla scuola. Benedetta Zagni (Centro Studi Erickson): «Non si tratta solo di avvicinare i ragazzi al mondo del lavoro: è necessario proporre tante cose diverse perché così li si aiuta a capire chi sono, precondizione per capire chi vogliono diventare»

di Sara De Carli

Leonardo ha 16 anni, studia meccanica, si specializzerà in auto d’epoca perché «sono bellissime» e da grande lavorerà alla Ferrari o alla Lamborghini, «devo ancora decidere», così girerà il mondo «per andare a riparare le auto dei collezionisti, perché le auto d’epoca non te le portano in officina, sei tu che vai a casa loro, anche in posti esotici». Sofia ed Emanuela parlano in coro: hanno 19 anni, una sogna di fare la psicologa o l’insegnante di sostegno, l’altra la cameriera in un ristorante. Sono felicissime per i viaggi, le uscite e le amicizie che grazie al progetto hanno fatto. Anche Francesco ha 19 anni e da grande vuole fare il bancario, come lo zio Giuseppe: è orgogliosissimo del fatto che a scuola da due anni ci va da solo con l’autobus. «Ho imparato nel 2023, da giugno a settembre, con gli educatori di Step by step», racconta.

Leonardo, Sofia, Emanuela e Francesco sono dei ragazzi con disabilità intellettiva che hanno partecipato a Step by step, uno dei quattro progetti finanziati da Fondazione CR Firenze con la prima edizione del bando “Passaggi. Dalla scuola all’autonomia”. Dinanzi al vuoto che spesso si apre per i ragazzi con disabilità dopo la fine delle scuole superiori, il bando voleva “giocare d’anticipo” per sperimentare fin dalla IV e V superiore delle azioni che facilitassero il passaggio tra scuola e fuori scuola, facendo dialogare scuola, aziende, servizi e attivando sinergie utili ad accompagnare dei percorsi di autonomia personalizzati e sostenibili.

Il tema, come emerge chiaramente dalle parole dei ragazzi, non è solo quello dell’avvicinamento al mondo del lavoro, ma quello di una costruzione di autonomia a 360 gradi e anche quello della definizione della propria identità, in cui tanto pesa anche la qualità delle relazioni con gli altri.

Il 31 ottobre a Firenze un convegno ha fatto il punto sugli esiti dei primi quattro progetti finanziati, che si svolti nel territorio di Firenze, del Mugello e dell’Empolese Valdelsa, evidenziandone punti di forza e criticità. Non si tratta ancora di “larghe strade”, ma di varchi aperti, passaggi inediti in un terreno in cui c’è bisogno di inventarsi qualcosa che ad oggi non c’è. La Fondazione CR Firenze ha appena chiuso la seconda edizione del bando “Passaggi”: i nuovi progetti sono in fase di valutazione e partiranno nella primavera 2025.

Immaginare il futuro

Dario Ianes, ordinario di Pedagogia e didattica inclusiva all’Università di Trento e co-fondatore del Centro Studi Erickson, durante il convegno ha ricordato che occorre «lavorare con una modalità adulta» avendo come interlocutore una persona a cui si riconosce una «identità adulta»: «Servono l’utopia e il disincanto, il pensiero caldo e il pensiero freddo, la considerazione del bisogno e la considerazione del desiderio, costruire un bilanciamento tra storia e possibilità, ossia immaginazione di futuro».

Il monitoraggio e la valutazione dei primi quattro progetti realizzati è ancora in corso, ma Benedetta Zagni – psicologa dello sviluppo che per il Centro Studi Erickson ha seguito in prima persona il monitoraggio del progetto Varco, realizzato nel Mugello con la cooperativa sociale Proforma come capofila – durante il convegno ha anticipato alcuni spunti di riflessione proprio a partire dall’esperienza maturata con il primo bando Passaggi.

Che cosa hanno fatto, in sintesi, questi quattro progetti?

Hanno cercato di colmare il passaggio e quindi di riempire quel vuoto che c’è tra la scuola secondaria di secondo grado e la vita adulta. Hanno provato farlo coinvolgendo da un lato le famiglie e dall’altro il territorio, cercando di rispettare il più possibile la scelta, l’autodeterminazione dei ragazzi e delle ragazze con disabilità, creando un terreno sociale e provando a inserirli nel mondo del lavoro.

Quali studenti sono stati coinvolti?

Studenti e studentesse del quarto anno, con disabilità intellettive. In alcuni casi sono stati coinvolti anche studenti del quinto e del terzo anno, principalmente perché la risposta delle scuole all’inizio ha tardato ad arrivare. Con il prossimo bando si proverà a restare sul quarto anno.

In quinta è tardi?

Intanto alcuni ragazzi non vanno in quinta perché fanno le scuole professionali. Ma soprattutto perché l’obiettivo non è quello di arrivare in corsa, ma quello di provare a investire anticipatamente, per costruire insieme a loro e alle loro famiglie un progetto di vita. Uso le parole di un genitore che è intervenuto durante il convegno, quando ha detto che il progetto è stato importante soprattutto perché lì suo figlio ha trovato accoglienza. La prima cosa è accogliere queste persone nella loro individualità, per poi provare a costruire non dico un binario, perché binario sarebbe un po’ forzato, ma una rete, un tessuto sociale in cui inserirsi.

È questa la ragione per cui nei progetti ci sono una miriade di azioni, di cui molte legate al tempo libero, alla socializzazione, all’autonomia, alla capacità di spostarsi da soli con i mezzi pubblici e non solo azioni esplicitamente mirate all’avvicinamento al mondo del lavoro?

Sì, è necessario che facciano tante cose diverse per due ragioni: prima di tutto perché così li si aiuta a capire chi sono, precondizione per capire chi vogliono diventare e in secondo luogo perché così si costruisce un tessuto sociale intorno a questi ragazzi e ragazze. Come avvicinamento al mondo del lavoro c’è chi ha iniziato a fare esperienze di simulata d’impresa, chi ha fatto un PCTO nelle aziende che gli ha permesso di sperimentarsi in un mondo del lavoro e di capire le loro preferenze. Alcuni inserimenti veri e propri comunque ci sono stati e stanno continuando con successo.

Non si tratta solo di avvicinare i ragazzi al mondo del lavoro: è necessario proporre tante cose diverse perché così li si aiuta a capire chi sono, precondizione per capire chi vogliono diventare. E perché così si costruisce un tessuto sociale intorno a questi ragazzi e ragazze

Benedetta Zagni, Centro Studi Erickson

Abbiamo detto che bisogna giocare d’anticipo. Partire prima vuol dire lavorare con le scuole, mentre i ragazzi sono ancora a scuola. Le scuole però sono già caricate di tantissime aspettative. Allora, che cosa fa la differenza perché questo percorso appaia alle scuole come un’opportunità? Anche in vista dei progetti che partiranno con il secondo bando “Passaggi”.

Questa è una bella domanda perché è stata la criticità principale di tutte le quattro progettualità, la difficoltà a far capire alle scuole che vale la pena partecipare a “Passaggi”. Un genitore ce l’ha riferito: la scuola gli ha detto “guardate, se volete c’è questa opzione, vedete voi…”, senza particolare enfasi. La differenza, secondo me, la fa la possibilità di presentarsi alla scuola con un’équipe multiprofessionale, con una rete sul territorio, con diverse azioni e opzioni in campo. Il fatto che lo studente viene inserito in una vita quotidiana che prevede lo sport, delle attività pomeridiane, il PCTO in azienda, eccetera. Le famiglie e gli operatori di dicono che il problema di questi ragazzi e delle loro famiglie è che quando finiscono la scuola spesso restano sul divano: la differenza di “Passaggi” è che non offre solo un posto in azienda, ma dignità.

Forse la dico male: il ruolo della scuola allora qual è? È solo lo strumento per agganciare i ragazzi e poi fa tutto il Terzo settore oppure anche la scuola ha un ruolo attivo?

È una bellissima domanda, perché anche questo secondo me è stato uno dei limiti delle progettualità che hanno partecipato alla prima edizione di Passaggi, chi più chi meno. Nella nostra prospettiva la scuola deve diventare un ente che lavora attivamente all’interno dei “passaggi”. Cosa significa? Significa, per esempio, che diventa il luogo dove si fanno alcune delle attività sociali. La scuola diventa l’ambiente sociale, quindi la scuola dovrebbe diventare un soggetto proattivo. Questo per ora non ha funzionato così bene e credo che la ragione principale sia nel fatto che la disabilità nella scuola italiana viene di fatto delegata all’insegnante di sostegno.

Tra i punti di forza, c’è l’aver lavorato perché i ragazzi esprimano i loro interessi e le loro preferenze: sembra banale, ma questa è stata la chiave del successo. Offrire un bel ventaglio di proposte e poi lasciare la parola a loro.

Benedetta Zagni, Centro Studi Erickson

La Fondazione CR Firenze finanzierà una seconda tranche di progetti, con la seconda edizione del bando “Passaggi”. Che apprendimenti consegniamo? Cosa funziona e cosa no?

Tra i punti di forza, c’è senza dubbio l’aver lavorato perché i ragazzi esprimano i loro interessi e le loro preferenze: mi viene da dire “chiedetegli ancora che cosa vogliono fare tra i vari laboratori proposti”. Sembra banale, ma questa secondo me è stata la chiave del successo. Quindi offrire un bel ventaglio di proposte e poi lasciare la parola a loro. Positiva è anche l’apertura della rete, quindi il fatto che il territorio si sia messo insieme: tante partnership e alleanze sono nate grazie a “Passaggi”, quindi questo è assolutamente un elemento da portare avanti. Un terzo elemento positivo è la questione del monitoraggio, che aiuta a darsi degli obiettivi a breve termine, a medio termine, a lungo termine e poi a verificare come stiamo andando, dove possiamo migliorare. È servito molto, soprattutto, monitorarsi metà della progettualità per capire cosa si poteva cambiare e migliorare.

Quali invece le criticità?

La difficoltà iniziale a coinvolgere le scuole, quindi la necessità di investire di più fin da subito nella scuola non come traghetto ma come partecipante attivo, anche con il coinvolgimento degli insegnanti curricolari. L’altro attore da coinvolgere maggiormente sono le famiglie, anzi più che di coinvolgimento dobbiamo proprio parlare di alleanza. L’ultimo attore, le aziende: serve rafforzare un’ottica formativa e di accompagnamento, per far sì che non ci sia solo un inserimento ma che quello diventi un contesto realmente inclusivo. Questo funziona.

In foto, i ragazzi che hanno portato la loro testimonianza al convegno del 31 ottobre. Da destra Leo, Emanuela, Sofia e Francesco.

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