Famiglia

Matteo Bussola: «Per guardare negli occhi un figlio, devi alzarti in punta di piedi»

di Sara De Carli

Sul nuovo numero del magazine, lo scrittore Matteo Bussola racconta di come i figli abbiano un potere speciale: «Riescono a farti amare il diverso». Proprio lui che di figli non ne voleva (e che ne ha tre) svela che «essere padre mi ha letteralmente rimesso al mondo, come persona». Per gli abbonati di VITA, la versione integrale dell'intervista, con contenuti in più rispetto al cartaceo

A giugno 2024, quando è uscito La neve in fondo al mare, Enrico Galiano – un altro scrittore amatissimo – in un post ha scritto «io odio Matteo Bussola». Lo odia nel senso che lo invidia, anzi lo stima. Perché «scrive da dio», ma soprattutto «perché non esiste nessuno in Italia, che sappia dire così bene cosa vuol dire essere padre, oggi. Che sappia disegnare così accuratamente tutta la fragilità che significa. Che sappia farti sentire meno solo, in quel posto a metà fra l’imperativo di essere sempre forti e la vergogna di non farcela». Una professoressa universitaria invece mi ha detto che Matteo Bussola «è l’unico che rende comprensibile a tutti Lévinas, quando dice che il vero dono dei figli è che ti fanno amare il diverso e che questo ti trasforma per sempre». Eccoci quindi a tu per tu con Matteo Bussola, veronese, classe 1973, laureato in architettura, scrittore, fumettista e conduttore radiofonico. Con Paola Barbato (anche lei scrittrice) ha tre figlie di 11, 13 e 17 anni.

Bussola, partiamo da qui. Amare un figlio è amare il diverso?

Certo, è così per definizione. Amare i figli, soprattutto figli adolescenti, significa amare una distanza. L’adolescenza è la creazione di una distanza. Quel figlio così affettuoso, che ti considerava dio in terra e che ti gratificava, all’improvviso diventa un estraneo che chiude le porte, disattende le tue aspettative e lo fa perché crescere – con buona pace di noi genitori – vuol dire deludere, tradire le aspettative degli altri pur di non tradire se stessi. Da genitore devi imparare ad amare quella distanza lì. Viviamo nella comprensibile convinzione che i nostri figli e figlie vengano al mondo per piacerci, ma non è così. Ed è proprio quando sono più diversi da quello che ci aspettavamo, quando ci piacciono di meno, che dovremmo amarli di più, farli sentire desiderati per ciò che sono. Ne sono convito al punto da dire che diventiamo genitori per imparare quel tipo di amore lì, che non potremmo imparare in nessun’altra maniera, perché qualunque altro tipo di relazione affettiva funziona in modo diverso. La relazione di coppia è un modello di relazione affettiva che si fonda sul “io ti amo ma pretendo di essere ri-amato”: non c’è una relazione di coppia se solo uno dei due ama. Le relazioni finiscono per questo: ti lascio perché tu non hai messo la stessa quantità di amore, cura, attenzione che ho messo io. Anche le amicizie finiscono per questo: mi sento tradito perché tu sei stato meno presente nei momenti decisivi in cui mi sarei aspettato di trovarti. C’è sempre un’aspettativa di avere qualcosa in cambio, tranne nella relazione genitori-figli. I figli sono un amore a perdere. Se sei fortunato, ti torna indietro amore: ma tu non ami un figlio perché ti aspetti qualcosa indietro, è un amore che non funziona con la logica della “compravendita sentimentale”. Io ti amo e basta, per quello che sei. Questa cosa per me è stata un’epifania.

In che senso epifania?

Perché io prima della nascita delle mie figlie ero il prototipo del maschio totalmente egoriferito e concentrato su di sé, con una serie di relazioni sentimentali fallimentari alle spalle (fallite sempre per colpa mia), il posto fisso in Comune, un appartamento da scapolo. Avevo subito una narrazione della paternità del tutto nefasta, che è quella che soprattutto i maschi subiscono ancora oggi, cioè che i figli sono una cosa che incombe sulla tua vita per toglierti cose. Gli aperitivi, la partita a calcetto, i viaggi… Io da buon egoista i figli non li volevo. Diventare padre non faceva parte dei miei piani e dei miei progetti. Perché epifania? Perché poi ho conosciuto una ragazza, che da 18 anni è la mia compagna di vita. Se dovessi riassumere in una frase la nostra storia direi che “un uomo che non voleva avere figli si è messo con una donna che non li poteva avere e insieme hanno fatto tre bambini”. Sono diventato padre non volendolo e non aspettandomelo. E quando è accaduto, mi sono accorto che essere padre non ha neanche lontanamente nulla a che fare con quello che mi avevano raccontato. È un’esperienza che mi ha letteralmente rimesso al mondo, come persona. Non è un caso che tutte le cose migliori della mia vita, anche professionalmente, siano partite da lì.

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