Caso Bystronic

Il benessere dei dipendenti nel bilancio sociale. Finché servono…

La vicenda, denunciata da VITA, della multinazionale che chiude due stabilimenti italiani, pur essendo in utile. E con un bilancio di impatto scintillante. Ma che cos'è, allora, la responsabilità sociale d'impresa? E di che cosa parlano i sempre più complessi strumenti di rendicontazione della sostenibilità? Ne parliamo con Vittorio Capitani, ricercatore di Altis Università Cattolica

di Nicola Varcasia

Un’azienda pubblica un (bel) bilancio di sostenibilità. Leggendolo, ci si fa l’idea che il benessere dei dipendenti sia tra gli obiettivi da raggiungere assieme al profitto, senza dimenticare l’attenzione agli attori della filiera. Tutto bene, anzi, benissimo e “compliant”. Finché quella stessa azienda, dopo pochi mesi, comunica che chiuderà gli stabilimenti. E fine delle trasmissioni. Con buona pace del bilancio di sostenibilità e, soprattutto, delle 140 persone che ci lavorano e dell’impatto per il territorio circostante. La storia l’ha raccontata nel dettaglio Simone Cerlini.

È quella della multinazionale svizzera Bystronic, che ha comunicato l’imminente chiusura dei suoi stabilimenti italiani di Pieve Emanuele e San Giuliano Milanese, alle porte del capoluogo lombardo. Il dato di cronaca porta con sé, assieme a quelle di più stringente attualità, anche un’altra domanda: che senso hanno i bilanci di sostenibilità, dove si raccontano i miglioramenti raggiunti sul fronte ambientale e sociale, salvo poi annunciare la chiusura totale dopo qualche mese? Come si capirà il tema è quello del social washing, affrontato nel numero di ottobre del magazine. Abbiamo provato a capirci qualcosa in più, interpellando un esperto in materia, Vittorio Capitani, ricercatore di Altis Università Cattolica, scuola specializzata proprio nello sviluppo del management sostenibile.

Il bilancio di sostenibilità di Bystronic si interessa anche della comunità, quella che ormai non solo noi a VITA chiamiamo “S esterna”?

Nella componente social del bilancio 2023 pubblicato dall’azienda, riassunta nella sezione chiamata Engaged People, l’azienda si focalizza esclusivamente su iniziative di diversity, equity and inclusion (Dei) e sul cosiddetto talent management.

Che vuol dire?

Rispetto alla “Dei”, viene ad esempio posta l’attenzione sulle policy di assunzione e promozione dei dipendenti, che non devono essere influenzate da discriminazioni di qualsiasi tipo. Dall’altro lato, vengono posti obiettivi di miglioramento dell’employee retention, ossia la fidelizzazione delle persone, con attività di formazione e l’adozione di politiche di trasparenza per le promozioni e, in generale, per il monitoraggio continuo della soddisfazione delle persone al lavoro per un successo a lungo termine dell’organizzazione.

Ma la comunità?

L’attenzione alle “proprie persone” da questo punto di vista non implica un impegno più diretto con le comunità in cui i dipendenti operano.

Non è paradossale?

Questo è certamente un elemento di debolezza di determinate policy di sostenibilità proposte dalle imprese, in particolar modo sociale, in quanto i dipendenti sono anche parte di comunità che risentono in maniera diretta delle decisioni d’impresa.

Ma non ci sono strumenti per evitare queste contraddizioni?

Senza neanche considerare i nuovi standard previsti dalla direttiva europea Csrd, lo standard Gri 413, all’interno della griglia più diffusa a livello internazionale, creata dalla Global reporting initiative, indica proprio come monitorare e rendicontare gli impatti della propria attività sugli stakeholder e le comunità locali. In sostanza, esistono già degli strumenti per monitorare e rendicontare anche questi aspetti.

Un occhio poco esperto, ma attento al sociale, potrebbe considerarli inefficaci.

Il fatto di dichiarare l’integrazione degli obiettivi sociali nel proprio business è dovuto a un fraintendimento degli obiettivi sociali stessi che, molto spesso, vengono visti esclusivamente in termini di benessere dei dipendenti. In questa prospettiva, una volta che l’azienda non ravvisasse più l’utilità di questi dipendenti… l’obiettivo di benessere verrebbe meno.

Oltre il danno, la beffa: quindi non è un problema di rendicontazione?

L’adozione di standard in questi aspetti pur delicati è sempre subordinata alle decisioni strategiche da parte dei vertici aziendali, specialmente laddove le decisioni di maggiore rilevanza vengono assunte da un board che non ha vincoli specifici sul territorio, come per esempio per imprese multinazionali.

Con la Csrd dovrebbe cambiare qualcosa?

Il punto principale riguarda l’obbligatorietà per la fascia delle imprese che rientra nei criteri stabiliti dalla direttiva. Fino ad ora gli standard erano quasi una sorta di “far west” in cui ogni azienda poteva rappresentarsi nel modo che riteneva più utile, il fatto che ora saranno obbligate a seguire una serie di standard è comunque qualcosa di positivo. Il punto però è quello a cui accennavamo prima.

Quale?

Le decisioni strategiche vengono prese dai Board e, se un Board decide all’improvviso di chiudere uno stabilimento, il problema non è certo se in precedenza aveva applicato un qualsiasi standard. Uno standard non può vincolare una strategia d’impresa e impedirle di prendere scelte controverse, ma può misurare e rendicontare il commitment preso dall’azienda.

Se nei Board ci fosse il comitato endoconsiliare di sostenibilità?

Elevare il grado di coinvolgimento di tutti gli stakeholder nella conduzione dell’impresa può avere effetti importanti. Lo si è visto anche in altre crisi industriali simili. La responsabilità sociale dell’impresa non riguarda infatti solo il benessere dei dipendenti ma ha delle ricadute più ampie sull’intera comunità e in particolare sul territorio in cui l’impresa opera. Nel tessuto imprenditoriale italiano, questa è una strada che ha avuto casi di straordinario successo, come il caso storico di Olivetti, ma che in tante altre occasioni non ha avuto seguito.

Foto in apertura, dal sito Bystronic

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