Cultura

Scorciatoia verso il pathos

Recensione del film "La Passione di Cristo" di Mel Gibson (di Maurizio Regosa).

di Redazione

Pensate a una sequenza in cui la macchina da presa indugia su un dettaglio non troppo significativo per poi spostarsi svelando sulla sinistra il profilo di un uomo, le spalle forti, gli occhi fissi. L?uomo si alza di scatto, lo ?sguardo? concentrato ma assente rispetto a noi che lo seguiamo, mostra se stesso e le ferite con le quali incredibilmente convive, passa davanti all?obiettivo del tutto indifferente, va verso destra, come per uscire dall?inquadratura? Ma il film è concluso e di questo movimento non resta che l?accenno, cristallizzato in un frame sul quale iniziano a scorrere i titoli di coda. Potrebbe essere l?explicit di Armageddon e invece è il congedo di La Passione di Cristo, diretto da Mel Gibson. Un finale che, liquidando in una manciata di secondi il tema fondamentale della Resurrezione, a mio giudizio è assai rivelatore: non più Uomo sceso fra gli uomini, Cristo diviene superuomo, è trasformato in eroe dalle gesta inaudite, dalle performance eccezionali, dalla resistenza che va al di là del credibile. Con questa inquadratura Gibson rende esplicita e fa emergere l?impostazione ?postmoderna? con cui ha voluto costruire la sua pellicola. Che cosa intendo con postmoderno? Voglio riferirmi a un?estetica il cui immaginario è dato dal sovrapporsi di molte figure, dal fondersi di molte culture, dalla contaminazione di molti immaginari. A un?estetica nella quale il tema del corpo, della corporalità ricostruita, stravolta e reinventata ha un peso notevolissimo (come ci ha mostrato Gianni Canova, nel suo L?alieno e il pipistrello). A un?estetica nella quale il narrabile e il visibile non hanno più alcun limite proprio perché a far da riferimento e da punto d?equilibrio non è il reale (da tempo e giustamente messo in crisi, nella sua versione più ingenua), ma lo smisurato, lo straordinario, l?eccentrico quali vengono configurandosi in questo processo inevitabilmente caotico di accumulo e di progressivo superamento. In questa prospettiva, è possibile che un film faccia intenzionalmente convivere tensioni e nervature anche contraddittorie. Mi pare, appunto, sia il caso di La Passione di Cristo. Da una parte il realismo programmaticamente esasperato della lingua (l?aramaico), la ?verità? della ricostruzione ?fedele?, che non fa sconti, la dettagliata e cruda rappresentazione della sofferenza (ma occorrerebbe interrogarsi sui meccanismi per condurre il pubblico verso un autentico pathos). Dall?altra una serie di simbolismi (quel demonio tra la folla), di forzature tese a stravolgere il reale (del tempo, ad esempio, con i ripetitivi e banali ralenti), rendendolo insopportabile e non più alla portata degli uomini: nelle scene più cruente, l?attore Jim Caviezel è stato sostituito da un corpo finto perché più sangue potesse scorrere, più lembi di pelle potessero essere inquadrati da una macchina da presa sedicente ?obiettiva?. Alla stessa postmodernità (che ritiene di saper unire l?occhio commosso e lo sguardo da entomologo), possiamo ricollegare l?uso dei flashback su alcuni momenti della vita di Gesù e la contaminazione degli stili. Con accademica maniera Gibson adopera i piani americani e i totali con il metodo e il rigore del film d?azione, vi innesta molti primi piani, sceglie un montaggio classicamente basato su analogie formali, impiega il ralenti con puntigliosa sistematicità, adotta soluzioni di genere come la soggettiva sonora, sottolinea il pathos alzando banalmente il volume della (bella) colonna musicale. Peccato che si perdano l?originalità scandalosa e la complessità della figura di Cristo: la Passione si riduce a poco comprensibile persecuzione; il Sacrificio, mutilato della sua conclusione altissima, cioè la Pasqua, è ridotto a stupido, violentissimo assassinio. Un risultato che mi pare derivi da un approccio non sufficientemente problematico al testo: «Il mio film aderisce alle Scritture», ha ripetuto il regista. Come se, per capire il Mistero, fosse sufficiente comprenderne la lettera?

Maurizio Regosa


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