Inchieste
Socialwashing, il sociale come un detersivo
La “S” dei famosi criteri di sostenibilità aziendale, oltre a essere molto debole, è talvolta usata per abbellire l’immagine di un’impresa o, peggio, per nascondere comportamenti poco responsabili. VITA magazine di ottobre se ne è occupata, facendo parlare studiosi, imprenditori, esperti, attivisti. In questa prima parte, le voci di Simone Siliani (Fondazione finanza etica), Lorenzo Solimene (Kpmg), Alessia Gianoncelli (Impact Europe), Marcello Gallo (Fondo filantropico italiano)
La “S” dei famosi criteri di sostenibilità aziendale, oltre a essere molto debole, è talvolta usata per abbellire l’immagine di un’impresa o, peggio, per nascondere comportamenti poco responsabili
C’era uno spot tv degli anni ’70, così popolare da entrare nel lessico comune: una casalinga, ripresa fra grandi lenzuoli immacolati stesi ad asciugare, rifiutava l’offerta, vantaggiosissima, di scambiare due fustini di detersivo con il suo: “Dash, lava così bianco che più bianco non si può”. Per spiegare cosa sia il socialwashing oggi, verrebbe comodo quel Carosello, soprattutto quel claim che, per decenni, è diventato famosissimo: “Più bianco che più bianco non si può”.
Sì perché la “S” che sta per Social nel più famoso acronimo degli ultimi 10 anni, Esg appunto, oltre a essere deboluccia, quasi rachitica, rispetto alla “E” di Environmental, soffre anch’essa di impostura, strumentalità, furbizia, talvolta dabbenaggine. E sì che parliamo dei criteri su cui si basa, o dovrebbe, la responsabilità di un’impresa sostenibile. In più non essendo il socialwashing una pratica codificata — per il più noto greenswashing s’è scomodata anche una direttiva europea, la 825 di quest’anno, a sanzionare le dichiarazioni in salsa ecologista prive di fondamento —, non essendoci, dicevamo, una classificazione riconosciuta, cosa sia il “lavaggio sociale” lo sanno gli attivisti e quanti sono interessati alla responsabilità di impresa e, più in generale, della sostenibilità.
Per socialwashing si intendono quelle attività benefiche sociali, anche ben fatte e anche ricche come investimento, che hanno come unico scopo quello di sbiancare un’immagine aziendale che rischierebbe d’esser resa un po’ opaca da qualche altro comportamento poco commendevole o quantomeno criticabile. «Quando cioè l’impresa per apparire più “umana” di quanto è realmente comunica dati e informazioni false… in questo caso possiamo parlare di socialwashing», scrive nel suo interessantissimo Pericolo socialwashing, da poco uscito per Egea, Rossella Sobrero, “inventrice” del Salone della Csr e dell’Innovazione sociale e che intervistiamo nelle pagine che seguono.
Insomma, un concetto dai confini piuttosto ampi ma anche labili. E più le aziende sono grandi, più è probabile che in questi comportamenti finiscano per incorrerci involontariamente — la stessa Sobrero ne è convinta — magari perché una divisione non sa nel dettaglio che cosa faccia l’altra, ma il risultato di una certa azione benefica risulta inevitabilmente con finalità “detersiva”.
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