Cultura

Il papa in moschea contro pregiudizi e intolleranze

Il viaggio in Grecia e Siria è stato storico. Vita ha chiesto un commento a Lucio Brunelli, vaticanista del Tg2, che apparirà sul settimanale venerdì. Eccolo in anterprima

di Lucio Brunelli

Ci sono dei gesti e delle immagini che nel loro silenzio parlano più di mille parole. La visita del papa alla moschea degli Omayyadi a Damasco, domenica 6 maggio, lascerà nelle relazioni fra la Croce e la Mezza Luna un segno che nessun’ enciclica, nessun pronunciamento dottrinale sul dialogo con l’islam hanno mai impresso.

Il vecchio papa claudicante che prima di entrare nel tempio islamico si fa togliere le scarpe e infilare le babbucce bianche, per rispettare la prescrizione islamica. La preghiera silenziosa e solitaria davanti al memoriale di san Giovanni Battista.
Lo scambio di sguardi col Gran Muftì Kuftaro, uscendo dalla moschea. Gesti e immagini che entrano di diritto nel già voluminoso album storico del pontificato, insieme alle foto e ai filmati della visita alla Sinagoga di Roma nell’aprile 1986.
I mass media, specie le tv (con la complicità di qualche collaboratore più realista del re), spesso banalizzano le fatiche apostoliche di Giovanni Paolo II presentando Wojtyla come un insaziabile recordman dello spirito la cui unica missione sembrerebbe quella di stracciare tutti i primati appartenuti ai suoi predecessori. Come se a guidare i passi del papa slavo non fosse lo Spirito Santo ma qualche mago delle immagine, capace di costruire ‘eventi’sempre nuovi e mirabolanti in grado elettrizzare i mezzi di informazione.

Banalizzazioni a parte, resta il ‘segno’ oggettivo di questo terzo e ultimo atto del Pellegrinaggio (dopo il Sinai e la Terra Santa, ) sui Luoghi della Salvezza. La visita alla splendida moschea degli Omayyadi non nasce dal nulla. E’ uno dei pochissimi luoghi di culto islamici regolarmente frequentato anche dai cristiani col permesso delle autorità civili e religiose. E questo perché al suo interno è custodita, secondo una tradizione risalente al quarto secolo, la reliquia della testa di san Giovanni Battista. Profeta venerato anche dai musulmani.
Raccogliendosi in preghiera davanti al reliquiario del Precursore di Gesù, il Papa ha compiuto un gesto di tradizionale devozione cristiana, da sempre tollerato all’interno di quella moschea. Nessun sincretismo religioso, dunque. Nessuna legittimità all’ideologia massonica per cui “una religione vale l’altra”.

Da questo punto di vista i malumori affiorati in alcuni ambienti clericali, e registrati da Vittorio Messori sul Corsera del 7 maggio, sembrano davvero ingiustificati. Il Papa non rivoluziona la dottrina cattolica. Il suo gesto, insieme inerme e spettacolare, rafforza piuttosto quella strategia del dialogo e dell’amicizia con mondo islamico che già Giovanni XXIII e Paolo VI avevano inaugurato. Come unica realistica via per superare pregiudizi e diffidenze secolari e migliorare le condizioni di vita delle minoranze cristiane in terra d’Islam.
Strategia che in molti, fuori e dentro la Chiesa, ora vorrebbero abbandonare. Cedendo allo spauracchio della presunta ‘invasione musulmana’ portata dalla immigrazione nordafricana. E in nome di un cattolicesimo muscoloso che in realtà copre solo la paura di una propria debolezza.

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