Geopolitica

Così l’Europa torna a guardare ai Balcani

La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen si trova in visita ufficiale nei Balcani occidentali. Questi Paesi sono tornati a rivestire un'importanza prioritaria ponendosi di nuovo al centro dell'attenzione. La competizione geopolitica con Cina, Turchia e Russia si è fatta più pressante negli ultimi tempi frantumando l'illusione che l'area balcanica fosse di esclusiva competenza europea

di Paolo Bergamaschi

La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen si trova in questi giorni in visita ufficiale nei Paesi dei Balcani occidentali. Si tratta dell’ennesimo tour nella regione effettuato da un esponente di spicco dell’Ue.

Per anni colpevolmente trascurati, bistrattati o guardati con supponenza dalla diplomazia europea, dopo i conflitti degli anni novanta, i Balcani, con l’aggressione russa dell’Ucraina, sono tornati a rivestire un’importanza prioritaria ponendosi di nuovo al centro dell’attenzione. La competizione geopolitica con Cina, Turchia e Russia si è fatta più pressante negli ultimi tempi frantumando l’illusione che l’area balcanica fosse di esclusiva competenza europea.

Così il processo di allargamento che dal vertice di Salonicco, nel lontano 2003, si trascinava asfittico, quasi per inerzia, ha subito un’improvvisa accelerazione in vista di un possibile ingresso nell’Unione dei sei Paesi della regione entro il 2030, come prospettato dal presidente del Consiglio Charles Michel. La situazione sul terreno, tuttavia, non induce all’ottimismo anche se qualcosa si muove.


Buone notizie, ad esempio, arrivano per quanto riguarda l’Albania ma per la Macedonia del Nord, per contro, sembra ancora notte fonda. Da quattro anni i due Paesi si muovevano in tandem sull’impervio percorso di adesione. Nel luglio del 2022 si era ufficialmente consumata per entrambi la cerimonia di apertura formale dei negoziati con Bruxelles che si erano, però, subito arenati senza entrare nel vivo a causa del veto della Grecia per il primo e di quello della Bulgaria per il secondo.  Atene chiedeva a Tirana il rilascio preventivo di un sindaco della minoranza greca arrestato per corruzione; Sofia pretendeva il rispetto dell’accordo che impone a Skopje la modifica della costituzione. Nonostante la ferma presa di posizione del Parlamento Europeo, che in passato ha più volte ribadito che le singole questioni bilaterali non devono costituire un ostacolo nel cammino di adesione, di fatto i veti incrociati dei Paesi Membri continuano a prevalere imbrogliando una matassa già di per sé infinitamente complicata.

Lo scorso luglio le autorità albanesi hanno liberato Fredi Beleri, il sindaco di etnia greca incriminato. Nel frattempo, infatti, grazie alla doppia cittadinanza era stato candidato in Grecia ed eletto all’Europarlamento. L’immunità parlamentare ha, quindi, sbrogliato la situazione consentendo all’Albania di aprire i primi capitoli negoziali, quelli più importanti che valutano e fissano le credenziali democratiche di chi ambisce ad entrare a far parte a pieno titolo dell’Ue.

In un certo senso la data del 15 ottobre segna il fidanzamento dell’Albania con l’Unione anche se quella del matrimonio è ancora imperscrutabile, rimanendo sospesa fra la determinazione del candidato ad adottare e ad applicare le riforme e le remore dei 27 Paesi Membri spesso incerti sul da farsi. Se Tirana, per adesso, sorride, comunque, Skopje lacrima e non è una novità considerando il trattamento vessatorio subito in precedenza. Il braccio di ferro fra Macedonia del Nord e Grecia a causa della controversia sul nome è durato quasi trent’anni; quello con la Bulgaria su questioni storiche e linguistiche si è concluso nel 2022 o, almeno, così sembrava.

In base all’accordo raggiunto prima di entrare nel merito dei primi negoziati Skopje avrebbe dovuto riformare la costituzione includendo il riconoscimento della minoranza bulgara. Il precedente Governo a guida socialdemocratica, però, non disponeva dei numeri in parlamento per modificare la carta con l’opposizione indisponibile a sostenere il passaggio legislativo. Il nazionalismo, si sa, porta voti ma non risolve i problemi.

È andata così anche in Macedonia del Nord. Il partito nazionalista che nel maggio scorso ha stravinto le elezioni aveva promesso di rinegoziare gli accordi continuando il processo di adesione senza toccare le costituzione. Ma Bruxelles, ovviamente, ha risposto picche facendo ripiombare l’ex repubblica jugoslava in un nuovo psicodramma. A questo punto il Governo macedone deve scegliere se rimangiarsi le promesse elettorali per entrare nell’Ue o mantenere le posizioni oltranziste che hanno infilato il paese in un vicolo cieco. Molto probabile che opti per la prima scelta. D’altronde per i prossimi quattro anni le urne rimarranno chiuse e come dice il proverbio “passata la festa, gabbato lo santo”.

Ursula von der Leyen,visita la zona recentemente colpita da inondazioni e frane a Jablanica, in Bosnia. AP Photo/Armin Durgut/associated Press/LaPresse

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