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Protagonisti e ragioni di una guerra ignorata. Un massacro che non fa rumore

Da 18 anni, il Nord Uganda vede le stragi dei ribelli dell’Lra, per lo più ragazzini rapiti, guidati dal pazzo mistico Kony e foraggiati dal Sudan.

di Emanuela Citterio

La prima regola è non entrare nell?erba alta. In Africa lo sanno tutti. Puoi trovarti a due passi da un animale pericoloso senza accorgertene, e senza che lui si accorga di te. Se non all?ultimo minuto, quando ormai è troppo tardi. Nell?erba alta di Pagak, 18 chilometri a nord di Gulu, in Uganda settentrionale, il 17 maggio scorso sono stati ritrovati i corpi senza vita di 23 persone: un uomo con le mani legate, il resto donne, alcune con i bambini ancora legati sulla schiena. Massacrati a bastonate sulla testa.
Non è l?ultimo episodio, quello di Pagak, e nemmeno il più grave. È quello di cui abbiamo raccolto una testimonianza diretta. Insieme alle foto, agghiaccianti, consegnateci da chi si è trovato sul posto dopo questa ennesima strage. Quello che raccontano queste foto, dall?inizio di quest?anno in Uganda è cronaca quasi di ogni giorno. Sono in pochi a saperne qualcosa. Una strage degli innocenti che si consuma in silenzio, resa nota da brevi ma frequenti lanci di agenzia. «La peggior crisi dimenticata del mondo», l?ha definita Jan Egeland, vicesegretario generale delle Nazioni Unite e responsabile delle questioni umanitarie. Ma non è una ?guerra etnica? quella che da 18 anni sta martoriando la popolazione del Nord Uganda. A seminare il terrore tra la popolazione degli acholi sono altri acholi. È il Lord?s resistence army (Esercito di resistenza del Signore, Lra) di Joseph Kony, un «folle dalla mente lucida», com?è stato definito, che dichiara di essere guidato dagli spiriti per il bene del popolo. Nato nell?86 come forza di opposizione all?attuale presidente Youveri Museveni, l?Lra oggi è ormai una scheggia impazzita priva di un disegno politico, composta per il 90% da bambini rapiti e costretti a massacrare la propria stessa gente. Scrive il vicesegretario Onu, Egeland in un rapporto del novembre scorso: «Nessuno sa quante persone siano morte in questo conflitto. Ma ogni giorno scuole, case e villaggi sono distrutti. Sempre più bambini sono catturati, resi schiavi, violentati, costretti a commettere atrocità e a combattere per i ribelli».
Le vittime. Difficile stabilirne il numero: almeno 50mila, dall?87 ad oggi, secondo il governo ugandese. Più del doppio secondo le fonti locali. Sono certi invece i dati sui bambini rapiti in questi anni e tenuti, a furia di sevizie, nei ranghi dell?Lra: almeno 25mila, una cifra confermata dall?ultimo rapporto Unicef. «La crisi del Nord Uganda è ormai fuori controllo, e si sta trascinando nel totale disinteresse da parte della comunità internazionale», dice padre Giulio Albanese, direttore dell?agenzia Misna, di ritorno da una visita nel Paese. «L?esercito di Kony ormai attacca chiunque ritenga vicino al nemico, e cioè al governo ugandese. Si accanisce contro la popolazione locale per alimentare se stesso con viveri e nuove reclute, senza un?agenda politica. In compenso qualcun altro ce l?ha al suo posto: il Sudan, che continua a foraggiarlo in funzione antiugandese. È una storia vecchia. Lo stesso fa l?Uganda, che ha ripreso a sostenere l?Esercito di liberazione sud sudanese». I due gruppi ribelli, tuttavia, non sono paragonabili. L?Spla è un esercito che rivendica l?autonomia del Sud Sudan rispetto al governo integralista di Karthoum. Esce da una fase di colloqui in Kenya con i rappresentanti del governo sudanese, cominciata lo scorso novembre, che si è conclusa con l?annuncio della firma di un accordo di pace globale per il prossimo agosto.
È difficile che qualcosa di simile possa accadere in Uganda. Secondo le testimonianze dei ragazzi accolti dal Centro World Vision di Gulu, Kony tiene sospesi al terrore i miliziani con presunte crisi estatiche, dopo le quali ordina atrocità e massacri. «L?unica speranza è che singoli comandanti e gruppi di guerriglieri abbandonino l?Lra. C?è stata qualche defezione nei mesi scorsi, di Kony invece non si sa più nulla da un anno», dice da Kampala Filippo Ciantia, coordinatore in Uganda dei progetti della ong italiana Avsi. «Intanto gli attacchi dell?Lra sono diventati sempre più frequenti e prendono di mira i campi profughi. La gente non può più andare nemmeno a lavorare la terra. Le condizioni alimentari e sanitarie sono drammatiche».
Gli sfollati interni nel Nord Uganda sono arrivati a un milione e 200mila, su un milione e mezzo di abitanti. Vivono degli aiuti del Pam, il Programma alimentare mondiale, che però non ha abbastanza risorse logistiche per arrivare dappertutto. «La gente lascia i villaggi per andare nei cosiddetti campi protetti, che però protetti non sono affatto», spiega Ciantia. Di fatto le incursioni trovano scarsa resistenza da parte dei militari che il governo ugandese manda nel Nord per proteggere la popolazione. È accaduto così anche nel caso di Pagak, secondo la testimonianza, raccolta sul posto da fonti della Misna, di una donna scampata all?eccidio. Quando i ribelli, tutti uomini adulti, hanno attaccato il campo profughi, i paramilitari incaricati di proteggere i civili sono fuggiti. I ribelli hanno poi costretto la gente a inoltrarsi con loro nell?erba alta in direzione di Kaladima. «Ci hanno detto di lasciare lì il cibo e andarcene», ha raccontato la testimone. «Credevamo di essere salvi ma ci hanno raggiunti e presi a bastonate. Quasi tutti gli uomini sono fuggiti, ma le donne, con i bambini sulle spalle, non ce l?hanno fatta».

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