Moda sostenibile
Catanzaro, una bottega di famiglia per dire no al fast fashion
Malìa Lab è un progetto nato a Guardavalle. Il brand di moda etica e green lavora con tessuti artigianali e si basa su una filiera di produzione corta. L’obiettivo del laboratorio sartoriale è di puntare alla realizzazione di un tessuto a km0, recuperando l’antica tradizione tessile calabrese
Il fast fashion è uno dei settori in maggiore crescita in tutto il mondo, un mercato globale che vale – stando ad alcune statistiche – oltre 100 miliardi di dollari di fatturato annuo e una crescita costante del 20-30%. Non è una buona notizia: la moda veloce ed economica, che viaggia soprattutto online, costa infatti all’ambiente un prezzo insostenibile. Stando ai dati dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) del 2023, nel 2020 il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. Nello stesso anno, per fornire abiti e scarpe ai cittadini europei, sono stati impiegati 9 metri cubi di acqua, 400 metri di terreno e 391 kg di materie prime. La produzione ha causato circa 270 kg di carbonio. In questo contesto, il Made in Italy viaggia spesso al rimorchio delle tendenze, adeguandosi a standard qualitativi sempre più bassi e rinunciando ad una storia che ha fatto innamorare il mondo dell’Italia. Ecco perché le idee imprenditoriali in controtendenza, che nascono dai giovani professionisti del settore, hanno una ricaduta sociale importante e, a volte, anche economica per i territori in cui si sviluppano.
Flavia Amato è un’imprenditrice in controtendenza che ha conosciuto il mondo della moda dall’interno. Originaria della provincia di Catanzaro, a 18 anni si è trasferita nelle Marche per frequentare l’Accademia delle Belle Arti, specializzandosi poi in moda e iniziando a lavorare per marchi importanti. «Mi sono resa conto – racconta – che il Made in Italy oggi è davvero una finzione. Dell’artigianalità e della qualità dei tessuti che distinguevano la nostra produzione non è rimasto quasi niente». Così Favia ha iniziato a fare ricerche, a imparare sempre di più della storia dell’artigianalità italiana, a studiare i filati e i tessuti naturali. «Ho notato che quando si parla di filati naturali la proposta è molto limitata e circoscritta soprattutto ad alcuni capi pratici, come pigiami o abbigliamento basico. Non capivo perché non esistesse una proposta di moda qualitativamente alta». Da qui è nata l’idea di una propria linea di abbigliamento. «È sempre nelle Marche che ho partecipato ad un incubatore per startup innovative. Lì il progetto ha iniziato a prendere forma». Un progetto che nel 2015 l’ha riportata in Calabria e che oggi porta il nome di Malìa Lab.
Il termine “malìa” rievoca la forza della seduzione, l’incanto. A volte in Calabria si utilizza per indicare una fattura, intesa come magia cattiva; da altre parti, nel meridione, le leggende parlano di “malìa” come della magia buona delle fate dei boschi. «Non volevo il classico brand abbinato a nome e cognome, ma qualcosa di nuovo che fosse di facile leggibilità da vendere anche all’estero e che rievocasse l’idea di un ritorno alla tradizione». Ecco perché, il simbolo di Malìa Lab, è un fuso. L’incantesimo di Amato è iniziato all’interno di un’antica bottega di paese a Guardavalle, il paese di origine della famiglia. La bottega, punto di riferimento del paese negli anni passati, apparteneva alla nonna. I locali sono stati ristrutturati e oggi sono l’atelier di Malìa Lab.
Priorità del marchio è garantire la massima sostenibilità della produzione. Con il marito, con cui porta avanti l’attività, Amato ha iniziato a cercare, su scala nazionale, un fornitore italiano che producesse tessuti in filati naturali e certificati a basso impatto ambientale. Dopo averlo individuato, è iniziata la produzione dei primi modelli. «Lavoriamo con un connubio di filati naturali, – racconta – come la canapa, il cotone o la seta, e fibre moderne che hanno dei brevetti particolari che ne certificano la sostenibilità e la qualità».
Gli abiti nascono sia dal tessuto acquistato che dai dead stock certificati, ovvero il tessuto invenduto: «Seguendo un processo artigianale – spiega Amato – e tagliando i tessuti con le forbici, riesco ad evitare i piccoli difetti di produzione che fanno sì che lo stock non venga venduto». Sin da subito Malìa Lab ha puntato sul made to order, ovvero «produco quando ricevuto l’ordine. Questo mi consente di non avere problemi di magazzino e di riuscire a tagliare gli abiti su misura per la cliente, valorizzando così ogni corpo».
Malìa Lab non è solo un brand di moda sostenibile, ma un progetto culturale che punta al recupero dell’antica tradizione tessile calabrese, un fiore all’occhiello di questa regione per diversi secoli ed oggi quasi del tutto sparita. «Il mio sogno è poter creare, con il mio marchio, una vera e propria filiera di moda etica e sostenibile interamente made in Calabria». A questo scopo, sempre a Guardavalle, Amato ha affittato un locale e recuperato due telai di oltre 100 anni. Quest’anno, grazie al contributo di un mastro tessitore, ha inaugurato dei corsi di tessitura, tintura e macramè che ha già contato sulla partecipazione di diverse persone. «Lo scopo – specifica – è riuscire a trasmettere la passione per questo mestiere, nella speranza che le nuove generazioni possano riappropriarsene e lavorare con noi».
Il recupero dei mestieri legati alla tessitura calabrese passa anche dalla riscoperta delle fibre tradizionali. Tra queste, su cui si stanno concentrando gli sforzi maggiori di diversi soggetti nel territorio regionale, c’è la ginestra, una pianta spontanea che cresce in abbondanza e che non richiede un grande impiego di acqua. Il filato di ginestra ha una fibra molto resistente, termoregolatrice, traspirante, idroscopica, antibatterica e adatta alle pelli sensibili. Ma è anche un tessuto molto complicato da realizzare: «Per farne un tessuto adatto all’abbigliamento occorre lavorarlo moltissimo, altrimenti resta ruvido e punge la pelle». Sul filato di ginestra ci sono diversi studi aperti, alcuni anche dall’Università della Calabria, dove nel corso degli ultimi anni si è cercato di sviluppare un impianto adatto per la tessitura industriale della ginestra: «Il limite, infatti, – spiega Amato – è proprio la lavorazione del tessuto stesso; finché il processo resterà interamente artigianale non riusciremo a produrne quantità tali da poter immaginare una reale produzione». L’investimento vale la pena. In un’epoca in cui la moda rappresenta un problema da risolvere, a Guardavalle è diventata invece un’occasione per tessere nuove trame sociali.
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