L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente – Unrwa è nata nel dicembre del 1949, dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 e all’esodo palestinese. L’Unrwa lavora in Giordania, Libano, Siria, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Nell’ultimo anno, dopo l’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, l’Agenzia è stata oggetto di grandi discussioni. Marta Lorenzo Rodriguez, direttrice direttrice dell’ufficio Unrwa per l’Europa con base a Bruxelles, è intervenuta al “Rome Humanitarian Congress”, organizzato da Intersos, dal titolo “Humanitarian in violent and troubled times: where do we go from here?” (L’umanitario in tempi violenti e travagliati: dove andiamo a finire?). Qui alcuni dei temi affrontati durante il panel “Is The Humanitarian Lifeboat Sinking?”, moderato da Miro Modrusan – Geneva Representative and
Policy Advisor di Intersos.
La nave dell’umanitario sta affondando?
Se penso ai miei 13mila colleghi nella Striscia di Gaza che restano e consegnano aiuti dico: no, l’umanitario non sta affondando. Noi non stiamo affondando. Ma l’ambiente attorno, il contesto, che dovrebbe consentirci di fare il nostro lavoro sta affondando. Tutto l’umanitario non può stare sulle spalle degli operatori umanitari che ogni giorno rischiano la vita nelle peggiori condizioni. Le persone di cui sto parlando, sono insegnanti, infermieri, medici, e dormono nelle tende come tutti gli altri, si svegliano la mattina e iniziano a lavorare quando avrebbero potuto scegliere di non farlo e restare con le proprie famiglie. Penso che dovremmo riconoscere che non siamo noi a fallire, che non sono le persone a fallire, ma è il sistema che fallisce.
State lavorando con fondi limitati?
Sì, ma non è una novità. Da anni, quindi ben prima del 7 ottobre 2023, l’Agenzia versa in uno stato cronico di sottofinanziamento. In Siria come in Libano, in Giordania come in Palestina ci siamo trovati davanti a due scenari: le esigenze che aumentavano e le crisi che si sovrapponevano. L’Unrwa però ha una struttura di funzionamento molto simile a quella di uno Stato: nei tanti campi profughi gestiamo dal sistema educativo a quello sanitario. E i nostri servizi sono tutti essenziali: che facciamo? Lasciamo i bambini senza scuola? Questa ipotesi non è accettabile.
Nell’ultimo anno le critiche all’Unrwa sono aumentate. Per un periodo alcuni Stati vi hanno sospeso i fondi
C’è stata una guerra parallela a Gaza, quella contro l’Unrwa. Abbiamo ricevuto attacchi, missili e siamo stati oggetto di una campagna di disinformazione. Ecco noi – come organizzazione umanitaria nel mezzo di una crisi senza precedenti – non siamo pronti a gestire anche queste campagne. L’altra questione particolarmente importante riguarda proprio la difficoltà che abbiamo nel far arrivare gli aiuti, a Gaza ma anche in Cisgiordania e ora in Libano. Le persone non muoiono solo per le bombe ma anche perché non hanno accesso alle cure: questa cosa è incredibilmente frustrante e dolorosa. Perché non ci si riesce a mettere d’accordo su questa cosa? Perché dobbiamo negoziare per il numero di camion che entrano nella Striscia di Gaza? Perché dobbiamo scegliere se questo ospedale sarà alimentato con il carburante ma un altro no? Posso dirvi che le persone a Gaza pensano solo alla loro sopravvivenza quotidiana: “riuscirò ad avere dell’acqua o cibo?” e alla prossima evacuazione: “dove dovrò andare?”
Qual è la previsione per i prossimi 6/12 mesi se non riuscite ad assicurare i finanziamenti dagli Stati membri?
È stata aperta un’inchiesta sulle accuse di un potenziale coinvolgimento dello staff Unrwa nell’orribile attacco del 7 ottobre. Gli Stati membri sono stati soddisfatti delle conclusioni? La risposta è no. Anzi alcuni sì, altri no. Ma il rapporto Colonna dice che abbiamo un sistema più forte quando si tratta di neutralità rispetto ad ogni altra organizzazione Onu o di altre organizzazioni umanitarie. Unrwa già prima dell’inizio della guerra controllava chi erano i beneficiari che ricevevano assistenza e cibo. Parlo di 1,2 milioni di persone. È una buona rassicurazione? No, non sarà mai abbastanza, perché ci sarà sempre la politica dietro che rende molto difficile per gli Stati membri supportare l’organizzazione. Ancora non si comprende il mandato che l’Assemblea generale ha dato all’Unrwa, che è quello di fornire servizi basici ai rifugiati palestinesi fino a quando non si sarà trovata una soluzione duratura e giusta per loro. Penso sia inaccettabile che si metta più pressione su un’organizzazione proprio quando serve che non fallisca nel portare a termine il mandato ad essa assegnato.
La Knesset ha pronte tre leggi per rendere l’Unrwa un’organizzazione “terroristica” e cacciarla dai territori occupati. Perché vediamo una tale mancanza di condanna pubblica da parte degli Stati? Sappiamo che c’è una politicizzazione e che alcuni Stati non lo condanneranno mai, ma perché il resto del mondo resta così in silenzio?
Io direi: perché sono rimasti zitti quando Israele ha dichiarato l’Unrwa un obiettivo di guerra? Questa è la prima questione. È accettabile che smantellare un’organizzazione umanitaria sia un obiettivo di guerra legittimo? Quindi non è solo la legge della Knesset. È una sfida operativa senza fine che affrontiamo sul campo, è cominciata con la policy no-visa fino agli attacchi sui nostri quartieri generali e lettere di sfratto dai nostri quartieri generali. Basta dirne una: abbiamo un conto bancario che è stato congelato in Israele. Non stiamo riuscendo ad importare beni da Ashdot o da altri corridoi che sarebbero più efficaci per consegnare cibo e beni di prima necessità. Rendere un’organizzazione dell’Onu illegale significa cambiare i paradigmi che tutti noi conosciamo, i paradigmi sulla soluzione a due Stati. La motivazione ovviamente è politica, ma le implicazioni sono umanitarie, legali, un attacco diretto al multilateralismo e alla Carta dell’Onu, un attacco diretto all’Assemblea generale. Se queste leggi venissero approvate significherebbe nella pratica il collasso delle operazioni umanitarie a Gaza. Noi rappresentiamo ancora circa il 50-60% della risposta umanitaria. Quello che avremmo voluto fare, ciò che è il nostro vero compito, è istruire e occuparci della sanità e dei servizi sociali a Gaza. Automaticamente quando è iniziata la guerra ci è stato chiesto di fare molto di più, da consegnare carburante ai macchinari degli ospedali al prendere detenuti da Kerem Shalom, e ora distribuiamo cibo nei nostri rifugi, dove stiamo ancora ospitando quasi un milione di persone. Lasciare la Striscia di Gaza e la Cisgiordania significherebbe la distruzione completa dei servizi pubblici.
A Gaza abbiamo visto il diritto internazionale umanitario sgretolarsi
Quando il diritto internazionale umanitario non viene rispettato le prime vittime sono i civili e gli operatori umanitari. Più di 42mila persone sono morte a Gaza, oltre duemila in Libano. Cosa stiamo aspettando? Le persone hanno il lusso di poter aspettare? Ci sono bambini a Gaza che scrivono lettere d’addio mentre aspettano che il diritto internazionale umanitario venga applicato. 226 nostri colleghi sono stati uccisi. Vediamo la distruzione di edifici Onu, vediamo persone che vengono uccise sotto le bandiere dell’Onu e alla fine non succede nulla. Non vediamo lo sdegno. Dov’è l’indignazione per questo? Vediamo gli edifici Onu, dove le persone cercano protezione e assistenza, targetizzati. E anche i nostri colleghi vengono uccisi. Farò riferimento ad un esempio molto concreto: pochi giorni fa, a Nuseirat, un rifugio è stato colpito e sono state uccise più di 20 persone, inclusi 6 nostri colleghi. Subito dopo 3 di questi colleghi sono stati etichettati come terroristi, senza prove. Ciò rende estremamente difficile per noi operare. Ognuno è a rischio, abbiamo colleghi che dicono: “devo mettermi il giubbotto dell’Onu? È la cosa giusta da fare? Lo metto? Perché so che se lo indosso sarò un obiettivo”. Sappiamo tutti chi sono i firmatari della Convenzione di Ginevra. Sono sicura che mettere pressione a Israele o ad Hamas cambierebbe la situazione. A Gaza sono state superate tutte le possibili linee rosse quando si tratta di assistenza umanitaria. Abbiamo accettato l’inaccettabile. Abbiamo accettato che alle persone a Nord fossero dati ordini di evacuazione all’inizio della guerra e hanno dovuto spostarsi. Accettiamo che l’85% della popolazione sia sotto ordini di evacuazione che non sono mai stati revocati, sono sempre in aumento. Ci sono molte altre linee rosse da superare? Non ne sono sicura.
Cosa possono fare gli umanitari in termini di advocacy?
I giornalisti internazionali non possono entrare a Gaza, un fatto senza precedenti. Quindi molte organizzazioni Onu e molte ong non hanno scelta. Non possiamo dire “non siamo giornalisti, non è il nostro ruolo”, dobbiamo denunciare cosa sta succedendo nella Striscia. Abbiamo un ruolo nell’amplificare il messaggio su ciò che sta succedendo a Gaza, così come in West Bank o in Libano. E non si tratta solo dei palestinesi, non dobbiamo dimenticarci che ci sono ancora 100 persone tenute in ostaggio da un anno, con le famiglie che soffrono. Non si tratta delle sofferenze di un gruppo contro quelle di un altro. Penso che vedremo società traumatizzate nei prossimi decenni, società che saranno più difficili da guarire rispetto alla ricostruzione della Striscia di Gaza. Continuiamo a combattere le narrazioni di polarizzazione in Europa. Non si tratta di essere pro-Palestina o pro-Israele, è essere pro-umanità e pro-vita.
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