È il più conosciuto e apprezzato street artist della Sardegna, molto quotato anche nella penisola. Non tutti conoscono, però, il volto di Manu Invisible, nome d’arte di Manuele, cagliaritano che non svela cognome, età e tutto ciò che potrebbe portare al suo riconoscimento ufficiale. Dopo aver lavorato per sette anni a Milano, tempo fa è rientrato nella sua terra d’origine e da allora ha sfornato decine di opere che abbelliscono luoghi e strade dell’Isola. In pochi sanno che una di queste è strettamente legata al nostro giornale: si trova nel quartiere di Santa Teresa, a Pirri, a cento metri di distanza dall’Exmè (vedi foto d’apertura). Un enorme murale che copre un’intera facciata del Teatro Dante, riqualificato nel 2020 per avere un’area vasta con spazi all’aperto dove poter ospitare interventi educativi e attività musicali, artistiche e sportive anche negli anni dell’emergenza sanitaria.
Manu, come mai hai preso ispirazione dal logo di VITA? E che cosa hai voluto rappresentare con questa opera?
Ci sono due elementi chiave: una di esse è la fedele riproduzione di una fotografia scattata alcuni anni fa, che mostra una ragazza ospite di Codice Segreto (una delle comunità della Fondazione Domus de Luna, ndr) abbracciata a sua mamma, Greta. Era stata fatta in occasione di un allenamento preparatorio per le Paralimpiadi di Tokyo. Sia io che Ugo Bressanello (fondatore di Domus de Luna, ndr) abbiamo convenuto che la parola chiave più opportuna, che potesse lanciare un messaggio positivo e forte ma allo stesso tempo incarnare la vocazione di Codice Segreto, di Domus de Luna e di questo luogo, un centro diurno e spazio di aggregazione a supporto di minori e famiglie, ebbene, la parola era “vita”: perché questa area ha ripreso vita e forma dopo un periodo di lungo abbandono. Era una parete fatiscente, in buona parte ricoperta da un’enorme pianta e da un furgone arrugginito parcheggiato chissà da quando. Ci siamo rifatti al logo della vostra testata, che ben conosciamo e che nel 2019 ha dedicato un bel servizio a questa iniziativa.
Migliaia di persone ti avranno fatto la stessa domanda: come mai celi il tuo volto? Hai creato un alone di mistero mentre le tue opere sono alla luce del sole.
Sono brutto, non voglio apparire. Scherzi a parte, la via dell’anonimato è un codice identitario che accomuna la stragrande maggioranza della street art in Italia e nel resto del mondo. Ci sono tantissimi colleghi che prendono questa strada, è una sorta di fil rouge che collega quasi tutta la frontiera di questo settore. Anonimato estetico, come la maschera nel mio caso, oppure di tipo etimologico e nella denominazione: il nome d’arte è, per eccellenza, la forma di anonimato più diffusa tra tutte le discipline artistiche, a cominciare da cinema e musica. Indosso la maschera in maniera radicale, quando lavoro, dal 2016. Per lo meno in pubblico.
Che cosa rappresenta la tua maschera?
Si rifà alla notte e alla geometria, due elementi di forte ispirazione per ciò che produco da tanti anni. L’ho costruita io, è diventata un’esigenza perché ho subìto un accanimento persecutorio per reato di imbrattamento, a Milano.
Ti muovi lungo tutto il territorio nazionale, dunque.
Sì, ma non solo. Sono stato in tanti Paesi, quest’anno in Africa e in Ucraina. Vado dove ci sono emergenze umanitarie e realizzo opere basandomi su questo codice stilistico, dove la parola chiave campeggia in buona parte del lavoro. E ha pure un valore semantico.
Quante opere hai realizzato, sinora?
Non saprei, non mi sono mai preso la cura di contarle. Alcune, poi, negli anni sono andate distrutte o comunque cancellate. Non faccio soltanto murales, bensì anche lavori su tela e sculture.
La tua è solo in parte un’attività di volontario.
Esattamente, è diventata la mia professione. Vendo una buona parte delle mie opere. Tra alcuni giorni sarò a Bari per partecipare a una mostra collettiva in galleria, che si intitola “The road not taken”. Porterò tre maschere simili a quella che utilizzo per lavorare, ma rivisitate cromaticamente, e tre opere su supporti di materiali di recupero. Anni fa ho effettuato una ricerca dedicata alla ruggine e al dorato, un contrasto molto interessante.
La quasi totalità delle tue opere è fortemente incardinata nel sociale.
Sono cresciuto all’interno di Domus de Luna: prima come individuo e poi come artista. È la risposta che ho sempre fatto dell’arte. Nel corso della carriera di un artista, ci sono differenti periodi con cambi stilistici, ma anche di slogan e di messaggi. Negli ultimi 15 anni, cioè da quando lavoro per Domus de Luna, il valore etimologico e il messaggio sociale sono la mia poetica portante. Sono come un figlio adottivo di Ugo, siamo molto amici.
I progetti nel cassetto?
Nei giorni scorsi ero all’Infanzia Lieta di Cagliari, una scuola primaria tra le più conosciute del capoluogo sardo. Al suo interno sto dipingendo due panchine, ispirate a discorsi molto importanti sulla coscienza dell’individuo da parte di Don Bosco.
I giovani impegnano una larga fetta delle attività di Domus de Luna. Quali sono le istanze che emergono maggiormente dal mondo giovanile, che tu frequenti e conosci?
Negli ultimi anni sta sorgendo una sempre più profonda indecisione negli individui che, mi dispiace dirlo, affonda le sue radici nella paura in senso largo. Quando si entra a scuola, si ha paura di sbagliare. Ma emerge anche quando si intraprende un percorso di autonomia, insieme alla paura del futuro, del domani. È un’epoca in cui i punti di riferimento sono sempre più rari, un tesoro inestimabile difficile da trovare. Quando propongo i laboratori con bambini e ragazzi, ma anche con giovani adulti e anziani, faccio leva sulla bomboletta spray come strumento per mettere in risalto certi concetti: per esempio, che è concesso sbagliare. Così faccio per primo un errore, dimostrando che non costituisce un problema. Si sbaglia e si riparte. Si impara dall’errore, che fa parte della nostra vita, del nostro essere. Stigmatizzare l’errore è un grosso inciampo per tutti. Quando si ha il tempo per sviluppare questi concetti, i giovani sono spugne che apprendono molto rapidamente. Loro prendono in mano le bombolette e lavorano insieme a me, piccoli e grandi. In questo modo abbelliamo anche aree degradate o comunque fortemente simboliche. Questa del Teatro Dante, per esempio, oggi è un’area altamente presidiata ma non molti anni fa era in mano agli spacciatori. Tutto il quartiere di Santa Teresa sta rinascendo, ci sono tante iniziative meravigliose che scaldano il cuore di chi abita in questa periferia.
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