VITA30, le storie

Isreaele-Palestina, donne che facevano sognare la pace. Nel 1996

di Redazione

Dall'annata 1996 del giornale, allora settimanale, il dialogo a distanza fra due donne di una terra in guerra. Una palestinese, cristiana e femminista, Hanan Ashrawi, l'altra, israeliana e laburista, Yael Dayan. Entrambe esprimevano una grande desiderio di pace. Le intervistarono, rispettivamente, Graziano Motta con Cristina Giudici e Gabriella Meroni

Immergersi nelle annate di VITA, in questi primi 30 anni di VITA, è un’esperienza sempre emozionante. Meglio, commovente. Il racconto che il settimanale faceva, soprattutto in quei primi anni, usciva completamente dagli schemi dell’informazione dell’epoca. Le due interviste che seguono sono, per esempio del marzo 1996, e mettono assieme due figure- come il direttore, Riccardo Bonacina amava fare – chiamate a parlare dello stesso tema.
In questo caso la pace in Terra Santa, che allora cominciava a sembrare possibile, malgrado l’uccisione di Ytzhak Rabin, il 4 novembre dell’anno prima.
Alla maniera di VITA ecco che il lettore si trovava al cospetto di due grandi figure femminili, Hanan Ashrawi, critiana palestinese, femminista e impegnata in politica, e Yael Dayan, figlia dell’ex-ministro della Difesa di Golda Meir, Moshe. Anche lei politicamente impegnata, in quanto deputata laburista.

Le intervistarono, rispettivamente, Graziano Motta, con la collaborazione di Cristina Giudici, e Gabriella Meroni, in uno dei suoi primi pezzi per il giornale. È il numero 10 del 1996, siamo cioè a marzo di quell’anno. (G.C.)

Hanan Ashrawi, palestinese

«Occorre eliminare le cause dello scontento per sconfiggere il terrorismo. La chiave della pace è il sostegno politico ed economico»
dI Graziano Motta

Alla vigilia della prima riunione a Gaza del Consiglio dell’autonomia, il primo “Parlamento” eletto palestinese, quello uscito dalle elezioni di gennaio, Hanan Ashrawi non può non rilevare una coincidenza per lei cara ed emblematica insieme: la festa internazionale della donna. Una festa che cade nel corso di giornate drammatiche, convulse, luttuose. Come dire un auspicio e nello stesso tempo un impegno per proseguire le battaglie che più le stanno a cuore: quella della costruzione della pace e quella per l’affermazione dei diritti della donna palestinese in un’accezione ampia, che parte certo dalla valutazione del contesto familiare e tribale della tradizione araba che non si è scalfitta – neanche con l’intromissione, attraverso le paraboliche televisive – ma che tien conto dell’evoluzione culturale e sociale che ha maturato negli ultimi decenni.

Sono stati i tempi dell’occupazione militare e dell’intifada in cui la donna palestinese si è trovata a confronto con una realtà durissima, di privazioni e di sofferenze materiali non solo, ma pure di affronti continui alla sua dignità fatta di orgoglio, che l’hanno certamente maturata e preparata a un approccio nuovo. Quello appunto che Hanan Ashrawi vuole interpretare nelle costituende strutture istituzionali della nazione, nella vita sociale e culturale.

Eletta a Gerusalemme

Convinta che l’apporto della donna possa e debba essere molto più incisivo di quanto la rappresentanza parlamentare oggi non esprima. È accaduto cioè che queste elezioni, sia per l’improvvisazione dell’apparato che vi è stato preposto sia per il prevalere di strutture tribali, di clan, controllate naturalmente da uomini, abbiano finito per neutralizzare e mortificare le non poche e significative candidature femminili. Hanan Ashrawi si è affermata per la prepotente personalità, apprezzata anche dall’elettorato maschile indipendentemente dal fatto di essere candidata a uno dei due seggi riservati a Gerusalemme alla minoranza cristiana. I voti cioè le sono venuti da uomini e donne, musulmani e cristiani, senza distinzioni. Un successo personale che non ha fatto piacere ad Yasser Arafat, non solo perché ha insidiato il primo posto al capolista del suo partito, ma soprattutto per il fatto che lei aveva da tempo preso da lui le distanze.

Hanan, stanchissima e tesa

Raggiungiamo la brillante “portavoce” della delegazione di pace e delle denunce di violazione dei diritti dell’uomo nella nascente realtà socio-politica palestinese il giorno dopo l’attentato terroristico di Tel Aviv. Hanan è stanchissima, preoccupata, tesa, ci dice: «Questi attentatori suicidi sono degli stranieri, lontani dalla mia visione del mondo, vengono dalla cultura sciita, dal mondo degli hezbollah, dall’Iran, dal Libano meridionale. Dobbiamo impegnarçi tutti per sconfiggere l’atmosfera che crea violenza e guerra, dobbiamo continuare il processo di pace». Come? Chiediamo, la Ashrawin non ha dubbi: «Occorre eliminare lo scontento che serpeggia tra la popolazione palestinese, da questo scontento nasce la violenza. Le misure di sicurezza prese oggi dal Governo israeliano sono molto pericolose, sono un enorme danno alla nostra economia. Ci chiudono ancora una volta in giganteschi ghetti, in prigioni collettive che si trasformeranno in pentole a pressione difficili da controllare. Con queste misure si vanifica e si mette in discussione il legittimo governo palestinese costringendolo a funzioni solo repressive». Ma sicurezza e pace non possono percorrere strade diverse, obiettiamo: «È vero non si possono scindere questi due valori. Ma la sicurezza non può essere un’operazione di polizia e di repressione unilaterale. La sicurezza deve nascere da un rapporto bilaterale tra due soggetti che collaborano nella pari dignità».

Percorsi di pace

Come costruire ancora percorsi di pace: «Lo dirò finché ho voce, ed oggi me n’è rimasta poca – risponde Ashrawin – rimuovendo, insieme, le cause della violenza e della guerra. E per rimuovere queste cause, lo dico a voi europei, occorre anche un sostegno politico ed economico a chi sta operando per la pace. Non dimenticatelo mai». La donna palestinese ha certo un ruolo grande da svolgere nell’immediato futuro se, come la stragrande maggioranza si augurano, prevarrà il processo di pace sull’irrazionalità del terrorismo fondamentalista. Anzi il suo apporto nella riconciliazione degli animi sarà determinante, come ha messo in rilievo una recente iniziativa dell’Istituto ecumenico di Tantur. E questo un centro di studi teologici con sede alle porte di Betlemme che, fondato dal Papa Paolo VI nel corso del suo famoso pellegrinaggio del ’64 in Terra Santa, persegue la ricerca dell’unità dei cristiani ed esplora le relazioni tra cristiani e appartenenti ad altre religioni, privilegiando il giudaismo e l’Islam. Nell’ottobre scorso, per dare un suo contributo alla pace,

L’esperienza di Tantur

Tantur ha riunito insieme alcune decine di donne credenti cristiane, ebree e musulmane per discutere della loro posizione nella cultura e nella società. Era la prima volta che ciò avveniva nella patria delle tre religioni monoteiste. E avveniva all’indomani della conferenza internazionale di Pechino. Il successo della iniziativa è stato notevole una volta superato il primo approccio grazie al fatto che l’incontro ha avuto un numero chiuso di invitate per garantire un equilibrio tra le tre componenti e che le partecipanti sono rimaste insieme 24 ore, dandosi appuntamento a maggio, a una conferenza più allargata. Oggi, Hanan Ashrawi è meno sola, nella sia pur piccola costellazione femminile palestinese.

[Ha collaborato Cristina Giudici]

Yael Dayan, israeliana

«Non siamo in guerra contro il popolo palestinese ma solo contro il terrorismo. La pace è possibile ma Arafat ha bisogno del nostro aiuto»
di Gabriella Meroni

Le donne in Israele, all’indomani degli attentati che ne hanno insanguinato le città, non si rassegnano a tornare indietro nel processo di pace, ma anzi ribadiscono che quella del negoziato è l’unica strada ragionevolmente percorribile. Donne palestinesi e donne israeliane.

È quanto ci ha detto Yael Dayan, figlia dello scomparso leader Moshe Dayan nonché deputato laburista alla Knesset, il parlamento israeliano, in un’intervista rilasciata il giorno dopo l’attentato che lunedì ha provocato 18 morti davanti al più importante centro commerciale di Tel Aviv.

Signora Dayan, in una settimana oltre cinquanta morti negli attentati. Le strade della pace e quelle della sicurezza interna rischiano di prendere direzioni diverse?

La gente è esasperata e la tensione è molto alta, basta un niente per accendere gli animi. Il governo ha reagito duramente alle stragi volute da Hamas, varando oggi una serie di misure eccezionali per fronteggiare l’emergenza. Però vorrei fosse chiaro che noi israeliani non ci consideriamo in guerra. Molti giornali stranieri, anche italiani usavano oggi questo termine, “guerra”. Ebbene, noi non siamo in guerra né contro il popolo palestinese, né contro Arafat; vogliamo solo combattere il terrorismo. Purtroppo se il terrore continua la pace non sarà possibile. Tutti noi, israeliani e palestinesi, abbiamo da tempo deciso di votarci alla causa della pace e vogliamo che si arrivi a una pace definitiva, però in questi anni, ogni volta che ci avvicinavamo a dei risultati concreti, abbiamo trovato sulla nostra strada sempre nuovi ostacoli. Il terrorismo è la guerra che sopravvive al nostro tentativo di pace. Ed è per difendere il cammino di pace che è giunto il tempo di usare il pugno di ferro: bisogna rimuovere quest’ ultimo ostacolo.

Si riferisce alle ultime decisioni del governo in tema di sicurezza e di espulsioni?

Sì. A scanso di equivoci ripeto che tutti i provvedimenti presi non sono diretti contro il popolo palestinese, ma contro i terroristi che ci stanno uccidendo. Questa è la convinzione mia e del mio partito, ma anche del governo. Sono tempi molto duri, ma sono convinta che Israele abbia la forza per superarli. La pace in Israele ci sarà, anche grazie alla durezza delle leggi che oggi siamo costretti a emanare.

Che cosa direbbe ad Arafat?

Arafat non è abbastanza forte, non ha abbastanza potere, benché la maggior parte del popolo sia con lui e abbia fiducia nella sua azione. Ma non ha i mezzi e l’esperienza necessaria per sferrare l’attacco decisivo alla piaga del terrorismo. E poi si tratta del suo popolo. Del suo popolo, capisce? La ricerca dei terroristi è difficile e sia lui che noi vogliamo evitare che scoppi una guerra civile tra il popolo palestinese. Arafat deve capire questo peri-colo, deve evitare il rischio di isolarsi dicendo “né con Hamas, né con Israele”. Arafat deve capire che la pace la può costruire solo insieme a noi, deve capire che se vuole sconfiggere gli estremisti è necessario collaborare con noi, usando anche dei nostri mezzi e della nostra esperienza nell’antiterrorismo. Non è forse vero che entrambi dobbiamo fronteggiare lo stesso peri-colo? Unendo i nostri sforzi avremo maggiori probabilità di successo.

L’8 marzo è la festa della donna. Che ruolo può rivestire la donna nel processo di pace?

Un ruolo fondamentale e insostituibile. In Israele le donne sono impegnate in politica quanto gli uomini. Non voglio dire che una donna desideri la pace più di un uomo, ma la mia impressione è che riesca più facilmente a costruire il dialogo, abbia una sensibilità più acuta verso i problemi, una maggiore attitudine a comprendere le ragioni degli altri. Noi per esempio manteniamo un ottimo dialogo, pur a distanza, con le donne palestinesi.

Ma in Israele c’è qualcuno che vuole ancora la guerra?

No, questo problema non esiste. Tutti, assolutamente tutti vogliono la pace.

Si tratta però di stabilire che tipo di pace è possibile, se una pace idealistica o realistica, e quali mezzi è lecito adoperare per raggiungerla. Una pace idealistica, è ovvio, non ha alcun senso e non ci interessa. Noi vogliamo la pace possibile, e il nostro partito, il partito laburista, ritiene che vi si possa arrivare solo tramite il compromesso. Il compromesso è la condizione indispensabile perché la pace faccia dei passi avanti e i massacri abbiano fine.

E i tradizionalisti di destra?

La destra non vuole la guerra, ma pensa che si siano fatte troppe concessioni ai palestinesi e per questo si oppone a ogni ulteriore compromesso. Anzi, si oppone al compromesso come strumento per arrivare alla pace.

Quale scenario si immagina per il prossimo futuro?

Israele sarà costretta a chiudere le frontiere, a porre delle barriere all’ingresso dei palestinesi, fino a che nessun palestinese potrà più entrare in Israele, neppure le persone oneste e innocenti che vengono ogni giorno a lavorare nel nostro territorio. Le nazioni europee dovrebbero unirsi e aiutare i palestinesi innocenti, in modo che non siano costretti a trasformarsi in terroristi per sopravvivere. La situazione è grave e c’è bisogno dell’aiuto dell’Europa. La chiusura potrebbe durare molto tempo, non possiamo permettere che degli innocenti muoiano di fame. Approfitto del vostro settimanale per lanciare questo appello a governi europei e ong.

Per partecipare alla festa dei 30 anni di VITA, a Milano, il 26 e 27 ottobre, basta registrarsi nel sito dedicato, 30.vita.it, dove trovate anche il ricco programma.

La foto dell’impaginato, in apertura, è di Antonio Mola. Quella nel corpo dell’articolo, dell’Agenzia LaPresse, mostra il momento di una manifestazione di fine 2000, quinto anniversario dell’uccisione di Rabin.

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