Caso Sardegna

Salute mentale, sovraffollamento e dipendenze: detenuti e personale allo stremo

Un convegno promosso dal Tribunale di sorveglianza di Sassari e da Conosci Odv ha messo il dito nella piaga di un sistema penitenziario al collasso in tutto il Paese. Nella Casa circondariale di Bancali 400 detenuti su 500 fanno uso di psicofarmaci. La Sardegna potrebbe essere un laboratorio di sperimentazione per un nuovo modello operativo

di Luigi Alfonso

Il sistema penitenziario italiano fa acqua da tutte le parti. La stragrande maggioranza degli istituti di pena risale al secolo scorso, buona parte delle strutture ha problemi di sovraffollamento, la promiscuità tra italiani e stranieri (questi ultimi costituiscono il 35% della popolazione carceraria: una cifra elevata) sta creando seri problemi di convivenza e di comunicazione, buona parte dei detenuti ha problemi di salute mentale, dipendenze o malattie infettive che suggeriscono il ricovero altrove. La Sardegna non è da meno, e il recente suicidio registrato alla Casa circondariale di Bancali, a Sassari (dove 400 detenuti su 500 fanno uso di psicofarmaci), è stata la molla che ha spinto il Tribunale di sorveglianza e Conosci Odv a organizzare il convegno “Tutela della salute negli istituti penitenziari del Nord Sardegna: peculiarità e criticità”, che si è svolto nella giornata di ieri all’Aula udienze penali della Corte d’Appello di Sassari.

Giommaria Cuccuru, presidente del Tribunale di sorveglianza di Sassari

Moltissimi i dati emersi, non solo le critiche e le polemiche di chi in carcere ci lavora ed è costretto a fare i conti quotidianamente con le bizzarrie di leggi obsolete o comunque con la scarsità di risorse e personale di polizia penitenziaria e sanitario. A proposito di suicidi, premesso che nelle scorse ore il conto a livello nazionale è salito a 75 (un record) e che il Nord-ovest ha percentuali quasi doppie rispetto al Sud, la Sardegna rispetta la media nazionale del 7% ma soltanto perché quella relativa alle donne è inferiore: i suicidi tra gli uomini sono infatti aumentati rispetto agli anni scorsi.

Esterni della Casa circondariale di Bancali, alle porte di Sassari

Il focus, che riguardava in particolare le realtà del Centro-nord Sardegna (Sassari, Alghero, Tempio Pausania, Nuoro e Mamone), in realtà ha mostrato un quadro analogo nel resto dell’Isola. La criticità è talmente alta che, per una volta, tutti gli attori sono d’accordo. Non è da meno il presidente del Tribunale di sorveglianza di Sassari, Giommaria Cuccuru: «Il diritto alla salute per i detenuti è stato più volte posto dal legislatore nazionale», ha ricordato in apertura dei lavori. «Già la legge n. 230/1999 stabiliva che i detenuti dovessero avere in materia di salute gli stessi diritti dei cittadini in stato di libertà, e questo principio è ribadito nei successivi provvedimenti con cui si è disposto che l’assistenza sanitaria passasse dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale. La norma cardine è costituita dall’art. 11 dell’ordinamento penitenziario, riformulato nel 2018, che prevede che il Ssn deve operare all’interno degli istituti di pena, e ha poi statuito con norma imperativa che il Ssn “garantisce ad ogni istituto un servizio sanitario rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati. Questa previsione, a mio avviso, può anche essere interpretata nel senso che il Ssn deve approntare per i detenuti strutture idonee a soddisfare il loro specifico bisogno di salute; dunque, occorre che queste strutture siano funzionali e parametrate alle esigenze di quella particolare tipologia di utenti. Nella stragrande maggioranza dei casi, i detenuti provengono da strati sociali marginali, si portano dietro malattie trascurate nel tempo, non dispongono di risorse materiali per ricorrere all’assistenza privata, e spesso neppure di un valido supporto familiare. Conseguentemente, necessitano di maggiori cure e attenzioni da parte del Ssn rispetto ai pazienti in stato di libertà, a parità di stato morboso. Senza considerare, poi, che vivere una condizione di malattia in ambiente carcerario, con le connesse ristrettezze di spazi, in assenza di riservatezza e con convivenza obbligata con persone talvolta non gradite, aumenta il disagio, la solitudine e lo sconforto derivante dalla malattia. Questa peculiare condizione dei detenuti apre la strada al superamento del “neutrale” principio della parità di trattamento, dal punto di vista sanitario, tra persone detenute e in stato di libertà. Occorre fare di più per sopperire a tali esigenze, senza che questo possa costituire una irragionevole sperequazione a loro favore. Dunque, dal punto di vista giuridico vi è spazio per ritenere che la tutela della salute dei detenuti possa essere caratterizzata da misure specifiche e sostanzialmente di vantaggio rispetto a quelle in essere per i cittadini in stato di libertà».

Un momento del convegno che si è svolto a Sassari

Al convegno è intervenuto anche Armando Bartolazzi, assessore regionale della Sanità, il quale ha lanciato una proposta: «Per dare la dovuta assistenza ai malati in carcere, non bastano le leggi: occorre un approccio sinergico fra il livello della decisione politica, il settore medico e la magistratura per governare le complessità. L’obiettivo comune deve essere la tutela della salute. Occorre andare verso un sistema che clusterizzi l’utenza per tipologia di cura: malattie infettive, tossicodipendenze, disagio mentale e patologie comportamentali. In questo modo è possibile organizzare la risposta sanitaria con una presa in carico che veda come obiettivo non solo il fine pena ma il trattamento del paziente detenuto a 360 gradi, garantendo la cura e il reinserimento sociale dell’individuo. Per fare questo, bisogna rafforzare il legame fra i livelli di gestione territoriale della sanità e le realtà penitenziarie dell’Isola. Penso anche alle prestazioni aggiuntive specialistiche da erogare, là dove possibile, all’interno del carcere. Le sezioni carcerarie in ospedale ci sono, ma gli spazi vengono spesso vengono occupati da altre discipline. Occorre una maggior consapevolezza e un’assunzione di responsabilità verso i pazienti detenuti, spesso in condizioni di fragilità estrema».

Armando Bartolazzi, assessore alla Sanità della Regione Sardegna

Soprattutto i medici presenti nella sala hanno fatto notare all’assessore Bartolazzi che, pur comprendendo l’esigenza di dover razionalizzare risorse e personale, molti detenuti presentano più di una problematica (es.: problemi di dipendenze e disagi psichici), dunque è difficile passare dalla teoria all’attuazione della sua proposta. Tra l’altro, la carenza di agenti di polizia penitenziaria sta creando problemi nella gestione dei svariati casi che si registrano ogni giorno nelle carceri, anche perché gli spazi ristretti in cui sono costretti a convivere, spingono molti detenuti a compiere azioni autolesionistiche o forme di protesta anche estreme (dallo sciopero della fame al suicidio), e non necessariamente perché abbiano problemi di salute mentale. Marco Porcu, direttore della Casa circondariale di Uta (che sino allo scorso 10 giugno ha diretto anche la struttura di Bancali), ha posto l’accento su un’altra grave criticità: è carente la formazione specifica del personale penitenziario, chiamato ad affrontare situazioni di grande complessità ma spesso non messo nelle condizioni di operare.

Sandro Libianchi, promotore dell’iniziativa

«La detenzione è in crescita, in Italia e in tutto il mondo, anche a causa delle norme più restrittive introdotte negli ultimi anni», ha ricordato Sandro Libianchi, promotore dell’iniziativa, medico e presidente di Conosci Odv, il Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane. «Da uno a due terzi delle persone detenute sono direttamente o indirettamente legate all’uso di sostanze stupefacenti. La maggior parte dei detenuti è di sesso maschile (94%) ma negli ultimi vent’anni il numero delle donne in carcere è cresciuto in maniera più evidente (+35%) rispetto agli uomini (+16%). I detenuti fanno parte della nostra comunità: proteggerli, in chiave di reinserimento sociale, significa anche proteggere noi stessi. Ecco perché è fondamentale aiutarli a recuperare e a non cadere nella recidiva. In Italia oggi contiamo 62mila detenuti (2.224 in Sardegna, dove si registra un indice di sovraffollamento del 97,70%: siamo arrivati, cioè, quasi ai limiti della capienza), ma i posti disponibili sono 45mila: ecco perché le risorse messe a disposizione dallo Stato sono insufficienti. Il finanziamento in materia sanitaria in Italia è pari a circa 227 milioni di euro, alla Sardegna spettano poco meno di sette milioni di euro, in buona parte per la medicina penitenziaria. La legge n. 354/1975 prevede che per ogni istituto di pena vi sia almeno uno specialista in psichiatria. Ebbene, nessuna regione rispetta questa disposizione. Il carcere è un contesto particolare, nel quale le leggi in materia sanitaria vengono raramente applicate. È evidente che la detenzione, di per sé, determina condizioni di vita completamente diverse da quelle delle persone in libertà. Ma non è possibile continuare ad assistere a una prassi molto frequente, cioè la conversione di problemi non sanitari in problemi sanitari, per esempio quando un detenuto “dà di matto” e il personale penitenziario chiede l’intervento terapeutico di un medico per placarlo. Noi, però, sappiamo bene che quelle reazioni sono legate anche alle condizioni di vita in queste strutture di pena».

L’articolo 545 bis del Codice di procedura penale, dal 2022, parla per la prima volta di “disturbo da uso di sostanze o di alcol, ovvero di gioco d’azzardo”. Ecco perché la medicina in carcere rappresenta un modello di “medicina della complessità”, per il peculiare contesto e per la numerosità delle istanze presenti. «La persona con limitazione della libertà personale è portatrice di una necessità di presa in carico globale, come individuo e non come una singola malattia o somma di varie patologie», ha precisato Libianchi. «Le persone con reati minori droga-correlati necessitano di trattamenti e non di carcerazione, per ridurre il rischio di ricaduta e re-incarcerazione. È necessario, dunque, un riorientamento delle politiche carcerarie. Le strutture ipotizzate dal recente disegno di legge del 2023 potrebbero essere una prima ed efficace risposta ai bisogni».

«Tutta la comunità penitenziaria della Sardegna avvertiva la necessità di un confronto pubblico come questo», ha commentato Irene Testa, garante regionale dei detenuti. «La carenza d’organico e le situazioni che ledono i diritti umani sono sotto gli occhi di tutti. Parliamo di persone in buona prevalenza malate, che chiedono assistenza ma la vedono negata. La sanità in carcere è quasi del tutto assente. Uno psichiatra per 700 detenuti è insufficiente: quanto tempo può dedicare al singolo disagio? Non accade soltanto nelle Case circondariali di Bancali e Uta, che sono le più affollate, ma anche nelle realtà più piccole. In alcune strutture arriviamo a un sovraffollamento del 130%, eppure le colonie penali sono semivuote e pure decadenti. La situazione sanitaria è critica sia all’interno che all’esterno delle carceri; tuttavia, in un istituto di pena si verificano situazioni complesse e spesso molto gravi: con una certa frequenza, molti detenuti ingeriscono batterie; altri si producono ferite, a causa di disagi psichici. Il personale penitenziario è insufficiente, non può far fronte a tutto. Ecco perché questa è diventata una emergenza nell’emergenza».

vita a sud

Qualcuno le ha definite corsie preferenziali, riferendosi alle liste d’attesa che si formano nell’imbuto del Cup, il Centro unico di prenotazione. Un problema che riguarda tutti i cittadini sardi, ma che nel caso dei detenuti è particolarmente grave. «Ci sono casi, come il 41bis, che richiedono una vigilanza molto marcata», ha spiegato il presidente Cuccuru. «Si arriva anche a dieci agenti di polizia, dunque un ingente impiego di personale e spese elevate. Ma se per far fare loro una visita specialistica urgente bisogna recarsi da Sassari a Cagliari o a Nuoro, perché il Cup ha assegnato quelle località indicandole tra le più disponibile in quel momento, i problemi si moltiplicano. Nessuno chiede trattamenti di favore, però bisogna trovare soluzioni a questi problemi».

Nel suo intervento conclusivo, Sandro Libianchi ha ipotizzato la Sardegna quale possibile laboratorio di sperimentazione verso un modello operativo che conglobi e integri tutte le funzioni nell’ottica di una presa in carico globale della persona detenuta, che sia così facilitata a rientrare nel suo territorio di appartenenza e a riconnettersi con i suoi familiari. «La Sardegna, in virtù del suo stato di Regione autonoma, della grande disponibilità delle autorità penitenziarie locali e anche della ricca varietà di tipologie penitenziarie (Case circondariali, Case di reclusione, colonie agricole con produzioni, ecc.), offre un terreno fecondo per la costruzione di un modello esportabile».

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