Giustizia minorile
Io, prete di galera, racconto i miei ragazzi condannati alla speranza
Don Domenico Cambareri da quattro anni è il cappellano dell’Ipm Pietro Siciliani di Bologna. Ha appena pubblicato “Ti sogno fuori. Lettere da un prete di galera”. «Sostenere il dolore di un adolescente è una delle esperienze più dure, e contemporaneamente più belle, che sto facendo»
L’amore, l’impegno e la passione che mette nel suo lavoro di cappellano dell’Ipm Pietro Siciliani di Bologna sono evidenti nelle parole di don Domenico Cambareri, che siano ascoltate al telefono o lette nel suo libro Ti sogno fuori. Lettere da un prete di galera (San Paolo Edizioni). «Io sento di dover rappresentare una speranza incrollabile in questi ragazzi, nel loro futuro e nella loro vita. Sono condannati alla speranza: una bella pena da scontare».
Don Cambareri, da quanto tempo lei è un prete di galera?
Nel luglio 2020 ho preso servizio presso l’Istituto penale per minorenni Pietro Siciliani di Bologna. Ho ricevuto una lettera di accoglienza, di benvenuto da parte del nostro Ispettore centrale dei cappellani, con scritto: «Benvenuto tra i preti di galera». Da quattro anni sono cappellano nell’Ipm.
Per la sua esperienza, in quattro anni la situazione com’è cambiata?
La situazione negli Ipm è molto peggiorata. Per due motivi. Prima di tutto, il sovraffollamento. I ragazzi sono passati, in totale negli istituti minorili, da sotto le 400 unità alle circa 570 attuali, quasi un 50% in più. A quest’aumento non ha fatto seguito il rafforzamento dell’équipe che si dovrebbe occupare del loro recupero.
Il carcere minorile è spesso quel “precipizio pazzesco” da cui bisogna prendere al volo i ragazzi; noi “grandi” ci proviamo, ed è una cosa pazzesca, come dice Holden, una vocazione tanto sproporzionata quanto inevitabile per chi ci crede
Il secondo motivo?
La forte presenza di minori stranieri non accompagnati che hanno delle problematiche educative, psicologiche gravissime, a cui di certo non può fare fronte un’amministrazione della giustizia minorile indebolita nel suo organico. Mi riferisco sia alla Polizia penitenziaria (un po’ più diffuso come problema), sia all’èquipe formativa educativa, quindi psicologi ed educatori, soprattutto. Sono ragazzi che hanno bisogno di una cura, di una tutela educativa esigente. Se noi tagliamo, diminuiamo o non rinforziamo, l’Ipm diventa sempre di più simile a un carcere dei maggiorenni, quindi con gli esiti disastrosi che gli istituti degli adulti ci raccontano.
Dopo il decreto Caivano sono aumentati gli ingressi?
Sì, il decreto ha facilitato la possibilità degli ingressi negli Ipm. Il decreto Caivano non aiuta perché, di fondo, porta a una narrazione di una esplosione della violenza giovanile che, statistiche alla mano, non è riscontrata. Anzi, c’è un calo dei reati dei minorenni. Quindi, non aiuta a creare un clima sereno di dibattito nel mondo degli adulti e, contemporaneamente, ha facilitato l’ingresso negli Ipm per ragazzi con reati più che altro afferenti a una situazione di disagio.
Sostenere il dolore di un adolescente è una delle esperienze più dure, e contemporaneamente più belle, che ho fatto e sto facendo
Nel Ddl sicurezza, che dopo l’approvazione alla Camera è passato in Senato, è previsto il reato di rivolta penitenziaria passiva. Cosa ne pensa?
Anche questo crea un clima non sereno, non rispettoso, non dialogante con i ragazzi. Il dialogo in carcere è tutto. Viene tolta anche la possibilità di poter esprimere in qualche modo un disagio. Sa qual è, da prete di galera che le frequenta quotidianamente, la paura più grande?
Qual è?
La mia paura più grande è che questi ragazzi utilizzino altri linguaggi di protesta autolesionistici. Non potranno più sbattere, fare rumore sul blindo e si taglieranno. Quindi, non direi proprio che queste misure siano un successo…
Il suo libro Ti sogno fuori. Lettere da un prete di galera è diviso in 12 capitoli, in ognuno c’è una storia. Mi ha colpito quando quel ragazzo dice che lei ha «il privilegio delle lacrime».
Uno dei drammi del nostro tempo è quello di doversi mostrare forti, invincibili, soprattutto i ragazzi. In certe circostanze io assisto a quello che chiamo privilegio: questi ragazzi possono finalmente, con me, manifestarsi deboli, fragili, raggiungibili anche da parte dei sentimenti. Cosa che in un carcere non è assolutamente permesso.
Io sento di dover rappresentare una speranza incrollabile in questi ragazzi, nel loro futuro e nella loro vita. Sono condannati alla speranza: una bella pena da scontare
I ragazzi con lei riescono ad aprirsi?
Sì, per la relazione con cui mi onorano. Poi per il mio ruolo neutro, non sono una figura giudiziaria, loro si sentono a casa nella relazione con me. Poi molti sono musulmani e, in qualche modo, anche se sono un prete cattolico, vengo riferito al mondo della fede, di Dio: questo con loro è paradossalmente una skill, un’opportunità, un’occasione. Quello che ho cercato di descrivere nel libro è anche che sostenere il dolore di un adolescente è una delle esperienze più dure, e contemporaneamente più belle, che ho fatto e sto facendo.
Lei scrive: «Il carcere minorile è spesso quel “precipizio pazzesco” da cui bisogna prendere al volo i ragazzi; noi “grandi” ci proviamo, ed è una cosa pazzesca, come dice Holden, una vocazione tanto sproporzionata quanto inevitabile per chi ci crede». Lei continua a crederci, ogni giorno, che si possa in qualche modo tirare su dal “precipizio” questi ragazzi?
Con il comandante della Polizia penitenziaria del mio istituto scherziamo sempre, lui mi dice: «Io la invidio perché è costretto a credere in questi ragazzi». Anche io sto maturando come uomo, come prete, come credente. Sento davvero forte questa responsabilità, nonostante i numerosi fallimenti e il dolore che si sperimenta. Il carcere minorile è attualmente un luogo di sofferenza e di fallimento. Però, anche per il ruolo che ho, io sento di dover rappresentare una speranza incrollabile in questi ragazzi, nel loro futuro e nella loro vita. Sono condannati alla speranza: una bella pena da scontare.
Questi ragazzi riescono ad avere speranza?
I ragazzi sono bravissimi ad autosabotarsi. A volte bisogna sperare al posto loro.
Lei riesce sempre a trovarla la forza di dare loro speranza?
La caratteristica dell’Ipm è che io, ogni giorno, non so cosa mi troverò davanti oggi. Quando dicevo che portiamo la speranza in mezzo al fallimento, intendevo proprio questo. Noi ci proviamo. Per fortuna, è un luogo dove ci sono tanti professionisti con cui facciamo rete e cerchiamo di costruire un’alternativa a questi ragazzi. La speranza è un’alternativa, la speranza è un progetto, non è una pura sensazione. Io do il mio contributo di conoscenze, di esperienza, a fare un progetto, a partire da qua dentro, e dopo ci vuole la libera adesione del ragazzo. È un luogo che dovrebbe educare alla libertà, non a prevenirla con punizioni e inasprimenti. Il ragazzo che si rifiuta, sta in realtà chiedendo aiuto, ti sta cercando, ti sta mettendo alla prova. Per cui ogni giorno mi devo rieducare a credere in loro e a credere anche in un’istituzione che oggi fatica. Ho conosciuto tanti professionisti, in uniforme e non, la mia pena è vedere come tanti sforzi, tante capacità vengano frustrate.
Ogni giorno mi devo rieducare a credere in loro e a credere anche in un’istituzione che oggi fatica
Nella prefazione del suo libro, dal titolo Muore fuori, lei scrive: «Qualcuno muore realmente nelle nostre galere, tanti metaforicamente. Un ragazzo muore fuori dai nostri sentimenti, dalle nostre istituzioni, dalle università, dai dibattiti, dalla cultura, dai programmi e, quando è fuori da tutto ciò, si spegne, si incattivisce, si tribalizza. Si muore fuori da tutto quando si è abbandonati». L’abbandono è un sentimento forte negli Ipm.
Assolutamente sì. Nel libro giocavo linguisticamente con la nota serie tv Mare fuori. Ieri con don Claudio Burgio, il comandante della Polizia locale e un ex detenuto abbiamo incontrato gli studenti di una scuola superiore. Alla mia domanda: «C’è almeno un adulto di cui vi fidate?» Su circa 70 ragazzi hanno alzato una timida mano in 10, quasi per tenerezza nei nostri confronti. I ragazzi sperimentano questo essere abbandonati ed essere anche “esterni”, mai coinvolti, mai interessati. In parrocchia dico sempre che noi non dobbiamo mai pregare per i giovani, ma pregare con i giovani semmai, lavorare con loro. Questi ragazzi si sentono soli, non compresi, messi ai margini delle nostre vite, vivono di notte, nei parchi, nelle strade. Soprattutto i ragazzi stranieri minori non accompagnati. Come saggiamente ha detto il nostro comandante della Polizia penitenziale dell’Ipm di Bologna, Paolo Limarzi, bisognerebbe correggere questo termine con “minori stranieri abbandonati”. Dalle famiglie e non solo.
Siamo tutti coinvolti.
Per la mia esperienza io lo faccio, mi piace coinvolgere tutti con me, anche il libro ha questa finalità. È un luogo di luce, un luogo che fa bene a essere frequentato. Io credo che faccia bene a noi. L’emergenza educativa nasce da noi, dalla nostra responsabilità adulta di questo mondo che influisce su questi ragazzi. E credo che, se noi davvero lavorassimo con loro, farebbe bene anche a noi, ci guarirebbe dal tossico narcisismo e individualismo in cui siamo caduti.
A Bologna è in corso una mostra, gratuita, a Palazzo D’Accursio, realizzata in occasione della manifestazione “Meeting per l’Amicizia fra i popoli 2023” da Kayros, Portofranco e Piazza dei Mestieri. Ce ne vuole parlare?
La mostra si chiama Da solo non basto, si può visitare fino al 13 ottobre. L’abbiamo voluta insieme al comune di Bologna e ad altre realtà per parlare alla città del fatto che esiste un carcere minorile, molti non lo sanno neanche e, invece, bisogna saperlo: i ragazzi sono responsabilità di tutti noi.
Foto ufficio stampa San Paolo Edizioni
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