La scomparsa di Umberto Agnelli mi ha colpito molto di più, sul piano umano, di quella del fratello Giovanni: è stata una figura tragica, shakeasperiana, la sua, l?uomo degli atti mancati che, quando arriva al posto di comando, si trova a dover realizzare progetti non suoi o nei quali non credeva. Ma credevo che la sua scomparsa avrebbe davvero segnato la fine di un?epoca, quella del capitalismo delle grandi famiglie di cui gli Agnelli ne erano l?ultima e insieme la più grande. Le alternative erano due: un capitalismo più moderno, più aperto, che scommette sul modello delle public company e si gioca sul terreno dell?innovazione oppure una ricaduta nel capitalismo plebeo e straccione di D?Amato e Berlusconi, il capitalismo dei pescicani che si contrapponeva al capitalismo aristocratico in un modo arrogante e conflittuale.
L?opzione Montezemolo alla guida di Confindustria faceva sperare in una terza via, nel capitalismo dei medio-grandi che rappresentasse anche i piccoli e che si aprisse al dinamismo interno ed esterno, capace di innovazione e dialogo sociale. Un?opzione capace di non limitarsi a intrecciare arroganza e questua, sfondamento delle tutele e delle regole verso i sindacati e richiesta di assistenzialismo verso il governo con la compressione del costo del lavoro come unica ricetta economica per uscire dalla crisi, come proponeva il capitalismo straccione. L?ascesa di Montezemolo lasciava presagire una ?terza via? dove le medie e grandi imprese si assumevano responsabilità e doveri e si mettevano in gioco sul terreno dell?innovazione, consce del ruolo sociale dell?impresa nella società. Invece l?ascesa così repentina dello stesso Montezemolo alla guida della Fiat mi getta nella desolazione più nera perché indica il violento ritorno della dimensione familistica della Fiat che pretende di continuare a dettare legge. Il Montezemolo presidente della Fiat e insieme di Confindustria non è il Giovanni Agnelli del 1974-?75 che, cumulando le due cariche, rappresentava il capitalismo vincente di allora che cercava la mediazione diretta con un fortissimo movimento operaio, ma indica solo il colpo di coda del ?familismo amorale? anche se si tratta dell?ultima grande famiglia del capitalismo italiano.
La Fiat delle zie affidata al tutore dei loro nipoti è un pasticciaccio ordito da chi vuole solo arroccarsi a difesa delle sue prerogative invece che accettare la sfida del mercato globale in un settore ipercompetitivo come l?auto. All?inizio della sua storia, certo, la struttura proprietaria familistica della Fiat aveva garantito sicurezza di comando e certezza decisionale del gruppo ma già da 15 anni è diventato solo un collo di bottiglia strozzato e la logica dinastica, di chi tratta con lo Stato da pari a pari, un ostacolo in una logica di mercati globali. La struttura familiare si è trasformata in un boomerang prolungato che ha inficiato la funzione produttiva del gruppo ma che nemmeno oggi vuole cedere il testimone, pur essendo priva di risorse interne per gestire la successione e ponendo gravi ipoteche sulle sue prospettive di ripresa.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.