VITA30, le storie
Martinelli e la non scuola. «Questa è la messa in vita»
Il 25 e 26 ottobre alla Fabbrica del Vapore VITA festeggerà con una due giorni il suo trentennale. In vista di quell'appuntamento abbiamo scelto di ripercorrere la nostra storia anche attraverso gli incontri che abbiamo avuto in questi anni. Questa è l’intervista al regista Marco Martinelli. «Che bella cosa la con-fusione», aveva raccontato. «Tutto si confonde, tutto si fonde». Poi aveva sorriso. E ancora: «Ogni corpo racconta qualcosa. Ogni volto è un romanzo, una vita, c'è dentro tutto»
di Anna Spena
L’intervista a Marco Martinelli è stata pubblicata sul numero di VITA di settembre 2015. Un numero bellissimo dal titolo “Butta i sogni fuori dalla testa”, con una cover firmata dall’illustratrice Olimpia Zagnoli. Sogno «è una parola stupenda troppo spesso tenuta in ostaggio dell’introspezione», aveva scritto l’allora direttore di VITA, Giuseppe Frangi, nell’introduzione della cover story. «Invece se si dà credito ai sogni, anche le imprese più incredibili diventano possibili. Queste pagine sono dedicate a tutti coloro che vogliono dare credito ai loro sogni». Avevo iniziato a lavorare a VITA poco meno di un anno prima e l’incontro con Marco Martinelli è stato uno di quelli che ha segnato gli anni che sono venuti dopo. «Anna che bella cosa la con-fusione», mi aveva detto. «Tutto si confonde, tutto si fonde». Poi aveva sorriso. E ancora: «Ogni corpo racconta qualcosa. Ogni volto è un romanzo, una vita, c’è dentro tutto».
Esiste una gratitudine magnifica negli occhi di Gianni e Valeria. Tangibile. Con una forza piena, evidente. Gianni e Valeria sono l’esito di un sogno realizzato, quello di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari, entrambi artisti. Gianni, 27 anni, di Scampia, nel 2005 si è imbucato nella non-scuola che Martinelli teneva a Napoli. Con Valeria, 25 anni, anche lei allieva della non-scuola, oggi lavorano nella compagnia teatrale Punta Corsara. Loro sono la prova che un sogno vero ne genera sempre un altro.
«La storia della non-scuola, è lunga», dice Martinelli, poi sorride. La costruzione di un sogno, di un sogno vero, è spesso una storia lunga. «Devo partire da me ed Ermanna», racconta. «Immagina che a 19 anni ti innamori fortemente di una persona, nasce tutto da lì. La non-scuola nasce perché io mi sono innamorato di Ermanna e lei di me. Eravamo due bambini, due asinelli. Asinelli nel senso che non sapevamo nulla del teatro e della vita, Asinelli nel senso che ci siamo costruiti a vicenda. L’unica certezza che avevamo è che eravamo innamorati e che, entrambi, avevamo qualcosa dentro, un fuoco che ci bruciava». Oggi, ma da sempre, lavoro e amore si confondono per loro, «Che bella la con-fusione», sorride Marco. «Tutto si confonde, tutto si fonde».
Ermanna e Marco si sono sposati giovanissimi, a 21 anni. Senza grandi risorse, con ancora poche competenze in materia di teatro, guidati solo da due certezze: fare teatro, e soprattutto farlo insieme. I primi anni sono quelli che Marco chiama “di apprendistato selvaggio“. Studiavano da autodidatti, facevano qualche laboratorio, qualche seminario, però, è in quei momenti che si inizia a tracciare la strada del percorso da intraprendere. «Volevamo fare la nostra scuola», dice Marco. «Il nostro maestro era l’errare. Attribuiamo a questa parola i due sensi che ha: quello di camminare, andare, senza dimenticare che “l’errante” è anche quello che sbaglia. Sapevamo già che avremmo imparato dai nostri errori. La verità è che ci siamo costruiti a vicenda. Siamo stati maestro l’una per l’altro».
Nel 1983 Marco ed Ermanna incontrano Luigi Dadina e Marcella Nonni, compagni di strada. Insieme, loro quattro, fondano, nello stesso anno, il Teatro delle Albe. «Il nostro sapere teatrale stava crescendo», dice Marco, «facevamo più spettacoli; qualcuno riusciva bene, qualcuno no. Un po’ guadagnavamo con il teatro, un po’ con dei lavoretti. Io d’estate ho fatto lo spazzino, Ermanna serviva ai tavoli di un bar. Ti facevi le scorte per l’inverno. Il teatro, nei primi anni, non ti poteva dare da vivere, non eri nessuno e soprattutto nessuno ti conosceva. È sempre così per i gruppi all’inizio». Poi gli spettacoli sono diventati più belli, il Teatro delle Albe inizia ad uscire dai confini di Ravenna. Marco non distingue il momento in cui il teatro diventa lavoro, e soprattutto non riconosce il passaggio che da apprendista di teatro lo vede trasformarsi in regista, drammaturgo, artista affermato. «Siamo ancora apprendisti. Si apprende fino alla fine. È un’eterna formazione, come la vita; anche la vita è un’eterna formazione. Bisogna imparare sempre a vivere, cambiamo fisicamente, invecchiamo. Ci sono ostacoli e domande sempre nuove».
Ma, un punto di svolta, esiste. «Una favola», la definisce Marco, «non saprei raccontarla in altro modo. Era il 1991, il direttore dei teatri di Ravenna doveva andare in pensione. Noi in città eravamo gli unici veri appassionati di teatro. Eravamo un gruppo di strani anarchici che si era costruito il proprio mondo. Quando mi ha chiamato per dirmi se volevamo prendere noi la gestione dei teatri avevo 35 anni».
Il sogno che li aveva fatti muovere, prende corpo. Uno spazio per fare arte, vivere di teatro. L’obiettivo era non tradirlo quel sogno, farlo crescere, prosperare. Generare altro da sé e diventare sogno per altri. «Quel dono che ci ha fatto il comune di Ravenna e il destino», continua Martinelli, «poteva essere un cavallo di Troia. Un dono che un poco ci poteva snaturare. Noi siamo nati e continuiamo ad essere presi da una passione e da un senso del teatro che non può esistere come evasione stupida. Il teatro è lo specchio di quello che è l’umano, un senso di bellezza profonda, incarnata». Il Teatro delle Albe non voleva trasformarsi in un gruppo di burocrati, funzionari attaccati alla poltrona. «L’unico modo per superare questo pericolo», spiega Marco, «era tenere spalancate le porte dei teatri. Aperte a tutti. Soprattutto ai giovani, sono loro i germogli che tengono un luogo vivo. Così nasce la non-scuola, come antidoto al grigio, come controveleno».
A 35 anni Marco ed Ermanna decidono di andare dove ci sono i ragazzi, nelle scuole. Fare teatro con gli adolescenti è il “punto di messa in vita”, come lo chiama lui. Non è una messa in scena, ma una messa in vita: l’inizio. «Ai ragazzi, d’istinto, proponemmo i classici. Shakespeare, Molière, Aristofane. “Che cos’è l’amore per voi?”, gli chiedevamo. L’amore è un terreno caldo. Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare è tutto improntato sull’amore, sul fatto che di giorno ne ami una e di notte ti viene da amarne un’altra. E questo succede a tutti, no? Soprattutto nell’adolescenza, dove l’amore è una scoperta quotidiana; un territorio sconosciuto. Sei in questa età di mezzo, bellissima, sbilenca, strampalata, dove vuoi essere tutto, puoi anche essere tutto con l’immaginario e la fantasia. È un’età fortemente teatrale, puoi incarnare tutte le parti. Chi sarò da grande? Questa è la domanda che brucia».
La non-scuola a Ravenna ha un grande successo; in tre anni da 80 ragazzi che partecipano si arriva a 400. Con una struttura semplice, precisa e incredibilmente sempre nuova, perché la novità la fanno i giovani, con le paure, i desideri, le passioni. Una volta alla settimana si va nelle classi, si presenta un testo classico che scompare per riapparire solo quando gli adolescenti capiscono che c’è un legame evidente tra loro e l’autore. Aristofane e le parolacce, Shakespeare e l’amore.
Si crea un’altra vita, un’altra storia rispetto al testo da cui si era partiti. A crearla sono i ragazzi. «Il segreto della non-scuola sta proprio in questa alchimia», racconta Martinelli, «alchimia tra i classici e gli asinelli che dimostra come alla base di tutto ci sia Dioniso. C’è quel dio del teatro che i greci veneravano 2.500 anni fa e che ancora oggi è dio del teatro quando il teatro è vero, quando è potente. A Dioniso eravamo fedeli anche prima della non-scuola, anche lui è “asinino”».
Passano 15 anni dalla nascita della non-scuola, è il 2005. I membri del Teatro delle Albe da quattro sono diventati 35. «Io ed Ermanna decidemmo di saldare i due percorsi che fino a quel momento erano stati paralleli», spiega Marco. «Allo spettacolo “I Polacchi” partecipano anche 12 adolescenti che avevano lavorato con noi alla non-scuola». Il sogno è bene lasciarlo camminare… Nel 2005 Ermanna e Marco accolgono la sfida intuitiva di Goffredo Fofi, “amico e critico appassionato del nostro lavoro” lo descrive Martinelli. «Goffredo», racconta Marco, «ci disse: “beh, è facile fare la non-scuola a Ravenna. Venitela a fare a Scampia”. Pensare di lavorare a Napoli era una bella sfida. Ogni settimana facevamo 12 ore di treno, una follia. Una follia voluta».
Lavorare a Napoli, lavorare a Scampia, è diverso rispetto a Ravenna. Il metodo della non-scuola si deve reinventare per abbracciare e radicarsi in un tessuto sociale complesso. «Eravamo abituati a lavorare con più scuole contemporaneamente», spiega Marco, «per ogni scuola, poi, c’era uno spettacolo finale. A Napoli sperimentiamo per la prima volta la possibilità di unire i gruppi per un unico spettacolo finale. Lavoravamo con i ragazzi del liceo classico Antonio Genovesi, del liceo scientifico Elsa Morante, della scuola media Carlo Levi e con il gruppo di adolescenti “chi rom… e chi no” dell’associazione Gridas. Era un rischio, io stesso non avevo mai lavorato con tanti ragazzi insieme. Ma nel rischio c’è sempre qualcosa che ti dà forza e poi ti salva. Sono stati anni bellissimi quelli napoletani, ma la prima volta che sono arrivato mi sono detto “io ce la farò?” A Scampia erano solo botte, non riuscivo mai a parlare, a volte le prendevo pure io per dividere i ragazzini».
La non-scuola napoletana prende il nome di Arrevuoto, nome assegnato dagli stessi ragazzi ai laboratori di Martinelli. Quando lui ha chiesto «Ragazzi ma che stiamo facendo qui?», loro hanno risposto con la classica espressione napoletana «è stamm arrevutann». La traduzione italiana dell’espressione è più o meno impossibile. Ma ha a che fare con qualcosa di bello, con qualcosa di grande, con qualcosa che si muove e che smuove.
Tutta la non-scuola si basa su una sola regola: è aperta a tutti. È uno spazio di libertà e creazione che appartiene ad ogni essere umano. «Perché», come spiega Marco, «in tutti gli essere umani c’è un livello di teatralità. Ogni corpo racconta qualcosa. Ogni volto è un romanzo, una vita, c’è dentro tutto». La “non-scuola” è arrivata in tante regioni italiane e in Paesi stranieri. Ma se Ravenna è la madre, l’esperienza napoletana ha saputo generare altro da sé. «Dopo tre anni di Arrevuoto», racconta Martinelli, «nasce Punta Corsara».
Gianni e Valeria erano adolescenti quando hanno conosciuto Marco. Partecipavano ai suoi laboratori e oggi fanno parte della compagnia dei “corsari”. Vogliono fare del teatro il loro mestiere. «Succede che a volte qualcuno si ammali di teatro. Per Gianni e Valeria è successo. La gratitudine che loro mi hanno dimostrato è la stessa che io restituisco a loro», dice Martinelli. «Sono pieno di gratitudine per loro e per tutti gli altri ragazzi. È questa gratitudine che mi tiene in vita, come l’amore per Ermanna».
L’ultima prova che il sogno di Ermanna e Marco, era un sogno-sogno, di quelli che una volta usciti fuori dalla propria testa entrano in quella degli altri, la si è avuta lo scorso mese di luglio a Milano. Il sogno è passato infatti dalle mani di 200 adolescenti, vestiti in pantaloni neri e maglia gialla, ai testimoni-spettatori che al Castello Sforzesco, sono stati ogni sera più numerosi. «In una delle sue poesie, Majakovskij scrive “mi cucirò calzoni neri col velluto della mia voce e una blusa gialla con tre metri di tramonto”. Scegliere i costumi per i ragazzi, quindi, non è stato difficile», spiega Martinelli. «Avevamo già in mente da un po’ Majakovskij, non quello post rivoluzione russa ma quello che vuole la rivoluzione russa, che desidera il cambiamento. Le poesie giovanili erano perfette».
Eresia della felicità, questo il titolo dello spettacolo, era nato nel 2011 per il Festival di Santarcangelo, portando in scena decine di ragazzi dalle varie non-scuole avviate in Italia e all’estero. «Spiegare che cos’è Eresia è difficile: per me è un tuffo al cuore ogni volta che la faccio. È qualcosa di smisurato che prende le persone; dai critici fino alle mamme con i bambini che, a teatro, non sono mai state. La prima cosa che dico ogni volta agli spettatori è “non avete pagato il biglietto, non siete spettatori ma testimoni. State qui con noi mentre lavoriamo”».
Tre ore di spettacolo che rompono con il pregiudizio di adolescenti spenti, vuoti, assuefatti da tablet e cellulari. Tre ore dove i ragazzi giocano a fare teatro ma con disciplina. «Eresia della felicità racconta benissimo e in poche ore il processo del lavoro fatto in tanti anni. Anche se, quando siamo lì, è importante non ripetere quello che abbiamo fatto prima. Io, che in quelle tre ore guido i ragazzi, devo essere il primo a rimanere sorpreso di quello che sta avvenendo. Eresia è veramente uno scambio d’amore tra tutti noi».
Lo spettacolo inizia con un rito: tutti i 200 ragazzi, uno alla volta, gridano il proprio nome. Gli altri, insieme, poi, lo ripetono. «È una cosa abbastanza giù di testa», sorride Martinelli, «ma potente per chi guarda». Poi, nella prima parte, il regista lavora con un’ottava dell’Orlando innamorato di Boiardo. «È come se fosse un rap; io faccio da corifeo e loro, i ragazzi, mi vengono dietro. Ogni giorno invento cose diverse, combinazioni nuove. I ragazzi sanno che in quel momento sta nascendo una cosa nuova».
Nella seconda parte, che è centrata su Majakovskij, i ragazzi diventano un coro. A Milano il sogno è passato dalle loro mani agli spettatori «perché ci è venuta l’idea alla fine di accarezzarli uno ad uno. Nell’accarezzarli non c’era niente di stonato». Non c’era niente di stonato perché, come hanno urlato i ragazzi recitando Majakovskij, «su un cuore in fiamme ci si arrampica con le carezze».
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