«Mazzata», «decisione terribile», «dipendenti a casa», «Mirafiori ferma». Le parole che raccontano una crisi un po’ si somigliano, sanno di perdita e incertezza. I numeri invece mettono la palla a terra, chiari e concisi come il segno meno che, nell’ultimo comunicato Fim-Cisl nazionale, contraddistingue la produzione in tutti gli stabilimenti di un’azienda che in Italia è sinonimo di automotive. Sulle pagine dei giornali, la vicenda Stellantis tiene spazio. Con lo sguardo del mondo, è l’ennesimo tassello di un ecosistema che si modifica, cerca un paracadute, ma non è certo di atterrare in sicurezza. Vista da Torino, con gli occhi del suo fitto tessuto sociale, è un’altra storia.
Mirafiori dopo il mito
Il punto di partenza non può che essere uno. Mirafiori, il quartiere operaio alla periferia sud, cresciuto rapidamente negli Anni ‘60 e ‘70 per accogliere un’immigrazione prevalentemente dal sud per lavorare negli stabilimenti Fiat. Il suo nome ha radici molto più antiche, intorno al 1500, quando il Duca Carlo Emanuele I fece erigere per la sua sposa, Caterina Micaela d’Asburgo, la nuova residenza extraurbana di Miraflores.
Oggi conta 36.167 abitanti (Istat, 2021), circa il 4,3 per cento della popolazione complessiva di Torino. Tra il 2011 e il 2021 Mirafiori ha perso circa 2mila unità. Più di un quarto della popolazione è oltre i 64 anni, l’11,3 per cento ha meno di 15 anni. Significa che sono i giovani a essere diminuiti maggiormente. Osservatore attento delle trasformazioni di un luogo che è nell’anima dei torinesi e degli abitanti dell’hinterland, è la Fondazione Mirafiori, ente filantropico senza scopo di lucro nato nel 2008 su iniziativa di Compagnia di San Paolo e associazione Miravolante. È la prima fondazione di comunità costituitasi a Torino, profondamente radicata nel quartiere di Mirafiori sud, ne conosce i punti di forza e di debolezza.
La presidente Anna Rosaria Toma sgombra subito il campo da equivoci: «Scriva cose belle di Mirafiori, questo pezzo di città va raccontato con la giusta attenzione per tutti i valori che possiede». Lo dice con la consapevolezza della presidente, ma anche con l’esperienza di una dirigente scolastica che per 11 anni è stata alla guida del Liceo Scientifico a indirizzo sportivo che ha sede nel quartiere. «Questa zona di Torino negli ultimi 15 anni ha cambiato il suo volto. Da quartiere operaio o dormitorio degli Anni ‘70, ‘80 e ‘90, ha assunto una forte tendenza alla residenzialità», racconta. «Il connubio fabbrica-territorio non è più così stretto come un tempo. Oggi il quartiere si interroga su come immaginare il proprio futuro. Effetti diretti di questa crisi non li avvertiamo: il dopo pandemia, con la progressiva internazionalizzazione, è stato testimone di un certo distacco».
Diffusa povertà, talento per la partecipazione
Questo non significa che la storia non abbia influito sul senso di appartenenza e identità del luogo. «Il progetto “Mirafiori dopo il mito” è stato un tentativo per raccontare che cosa è diventato il quartiere dalla fine dell’epoca industriale in poi», spiega Elena Carli, segretario generale della Fondazione. Se non si avverte una ricaduta diretta della crisi di Stellantis, una forma indiretta c’è: «Si traduce in una diffusa povertà. Questo è un territorio in cui l’eredità della perdita dell’industria fa sentire i suoi effetti, a partire dai tanti edifici vuoti e abbandonati. Si sente l’esigenza di costruire nuove prospettive. La crisi di Stellantis è un segnale forte di una trasformazione del mondo industriale che ci spinge ad andare verso altre direzioni». Quali? «La nostra è un’area molto verde, ha alcuni dei parchi pubblici tra i più grandi della città. La vocazione green è una delle strade verso cui ci si potrà muovere, ma anche il contrasto alla povertà alimentare attraverso l’orticultura urbana, l’inclusione, il volontariato, la forte spinta propulsiva derivante dallo sport e una comunità educante all’avanguardia nella programmazione comune».
Fragilità sì, ma anche risposte. «Nel 2021 abbiamo siglato un patto di comunità con gli enti caritatevoli del territorio per creare un sistema di recupero e distribuzione di beni primari per persone in difficoltà economica», continua Carli. Le fa eco la presidente: «Mirafiori è un grande laboratorio di sperimentazione. La partecipazione alla cosa pubblica qui è molto alta. È un’altra indubbia porzione di eredità: da sempre a Mirafiori la gente si incontra, si conosce e va oltre le formalità più dominanti in altre zone della città. L’essere comunità che abbiamo imparato dal passato industriale può fare di Mirafiori un terreno di grande innovazione sociale». La prova concreta sta nei 59 volontari che fanno parte di Miravolti, organizzazione nata nel 2023 su stimolo di Fondazione Mirafiori e Orti Generali.
L’economia sociale nel futuro di Torino
Dalla periferia ci muoviamo verso il centro, Palazzo Birago di Borgaro. Qui, il segretario generale della Camera di Commercio Guido Bolatto offre una lettura d’insieme: «Nel tempo le strutture dell’economia sociale sono state una risposta ai problemi di occupazione della città. Lo abbiamo visto recentemente anche nei numeri delle cooperative». Il riferimento va ai risultati dell’indagine annuale realizzata dalla Camera di Commercio sull’andamento delle cooperative torinesi: a giugno 2024 si contavano 1.105 imprese, in calo dell’1,7 per cento rispetto a fine 2023. Il comparto nel 2023 ha realizzato 2,8 miliardi di euro come valore della produzione e impiegato oltre 42mila addetti. Pur prevalendo nel primo semestre 2024 la stazionarietà sia del fatturato sia dell’occupazione, il 74,7 per cento degli intervistati si è dichiarato ottimista per il futuro. «Certo, non basta il sociale a rispondere alle crisi, ci vogliono politiche industriali nuove, ma questo è un territorio che nel passato si è già dotato di anticorpi e strumenti», continua Bolatto. «Lo dimostra il parterre di Torino Social Impact».
La mappa del sociale all’ombra della Mole è legata a filo doppio con il marchio collettivo che conta oltre 320 aziende e istituzioni pubbliche e private per promuovere l’ecosistema locale per l’economia sociale. Il suo portavoce Mario Calderini è una voce autorevole per guardare alle ripercussioni sulla città. «Innanzitutto, va detto che la crisi più rilevante è già accaduta. Il problema oggi è soprattutto di mentalità: c’è una generazione che fa ancora fatica ad accettare che l’azienda automobilistica non sia più la sua “casa reale”. Il mondo dell’automobile è ancora un pezzo importante della città (se non ci fosse, Torino avrebbe un serio problema sociale), ma altra cosa è dire che il futuro stia nell’automotive. Per moltissimi anni la città ha avuto un polmone di creazione di valore dentro il perimetro urbano. Quando questo non c’è più stato, ha cercato vocazioni a volte improbabili». C’è un’alternativa solida? «Io credo che a Torino l’economia sociale sia una concreta opportunità di creazione di valore produttivo».
La cooperativa che s’interroga
Non più tardi di qualche settimana fa, la cooperativa sociale Arcobaleno (oltre trent’anni di storia a Torino) ha presentato l’Indice Globale di Impatto. Un modello che tiene conto delle dimensioni tipiche di una cooperativa sociale per misurarne l’impatto in modo condiviso e replicabile. Ideato grazie a un team di soci lavoratori professionalizzati, in collaborazione con Microcosmos e con il presidio scientifico della Scuola di Management ed Economia dell’Università degli Studi di Torino, l’Indice tiene conto di tre elementi che incidono sull’operato di una cooperativa sociale che si occupa di inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Tra questi, c’è il contesto in cui l’ente opera.
«Torino si trova in una fase di difficoltà economica e sociale, che si riflette in vari indicatori, come il calo della popolazione residente e la diminuzione del reddito imponibile medio per abitante. Ha perso parte della brillantezza che l’aveva caratterizzata nei primi anni Duemila, e la sua forza lavoro si sta riducendo», spiega il coordinatore del gruppo di ricerca Daniel Iannaci. «La città fatica ad attrarre nuovi flussi migratori e il tasso di natalità è in calo, con la popolazione che invecchia rapidamente. Tutto questo comporta una crescente polarizzazione della ricchezza: da un lato, fasce di popolazione che godono di un alto benessere, dall’altro gruppi sempre più ampi vivono in condizioni di disagio economico».
Eppure, accanto alle ombre, ci sono segnali di speranza: «La crescita dei servizi sociali rivolti alla terza età, il turismo in aumento e l’attenzione verso la raccolta differenziata sono elementi che potrebbero contribuire a una ripresa. Torino, nonostante le difficoltà, sta cercando di reinventarsi puntando su nuove forme di sviluppo, che però richiedono tempo e investimenti strutturali». Perché per una cooperativa sociale è importante conoscere lo stato di salute della città in cui si muove? «Se la città vive una fase di crisi economica, le possibilità di trovare lavoro per le persone svantaggiate diminuiscono e aumenta il rischio di esclusione sociale. In un contesto in cui la disoccupazione cresce e il reddito medio diminuisce, aumenta la domanda di servizi sociali e assistenza, mettendo sotto pressione strutture come Arcobaleno. Al tempo stesso, diventa più difficile attrarre risorse, finanziarie e umane. Infine, avere una chiara comprensione dello stato di salute della città permette alla cooperativa di adattare i propri programmi e interventi».
Tutti i cambiamenti legati all’industria dell’automotive nel Torinese hanno sempre avuto un impatto sul territorio. «Durante gli anni del boom economico, l’industria automobilistica non solo ha creato occupazione, ma ha anche alimentato l’intera economia locale. Arcobaleno è nata in questo contesto. In quel periodo, l’automotive ha rappresentato una risorsa fondamentale per le famiglie torinesi e, indirettamente, anche per il lavoro della cooperativa». Oggi la crisi dell’automotive, insieme ai continui cambiamenti degli ultimi anni, colpisce duramente l’economia di Torino, influenzando anche il tessuto sociale. «Le difficoltà che affrontano le famiglie legate al settore aumentano», spiega Iannaci, «e ciò si traduce in un maggior numero di persone che richiedono sostegno sociale, economico e lavorativo. Oggi non è più sufficiente limitarsi all’inserimento lavorativo e crediamo che si debba sommare alla vicinanza all’individuo la cura dei suoi spazi di vita che in ultimo sono i suoi spazi di socialità. Sappiamo che le crisi in corso hanno ripercussioni non solo economiche, ma anche sulla salute fisica e mentale degli individui e delle famiglie. Il cambiamento a lungo termine si costruisce attraverso una sinergia di azioni. Per ottenere i migliori risultati per la città è essenziale che tutto l’ecosistema collabori».
Ernesto Olivero: «Io ho conosciuto la Torino buona»
Era un Arsenale di guerra, una fabbrica di armi. Dal 1983 il lavoro gratuito di migliaia di persone lo ha trasformato in Arsenale della Pace. Siamo al Sermig in Borgo Dora, un luogo di accoglienza, dialogo, ascolto e fede. Il suo fondatore Ernesto Olivero conosce Torino e la sua storia. Quanto hanno influito sulla città i cambiamenti attraversati dal settore automotive? «Chiaramente moltissimo, anche se quello sta avvenendo in questi giorni è il risultato di un processo lento che è iniziato molti anni fa. La Torino dei primi anni del Sermig era una città modellata sugli spazi e gli orari della fabbrica. Basti pensare che solo a Mirafiori, negli Anni ’60 lavoravano oltre 50mila persone: una città nella città. Con tutte le implicazioni del caso sia positive che negative. Indubbiamente il lavoro non mancava, come forme di benessere che portarono poi al boom economico. Ma esistevano altre forme di disagio: l’alienazione delle catene di montaggio, tensioni sociali che poi sfociarono anche nella violenza, un grigiore che si percepiva anche nelle relazioni. La Fiat nel bene e nel male era comunque una certezza. La sua crisi graduale e la dimensione internazionale assunta negli ultimi anni hanno reso sempre meno centrale il ruolo di Torino. C’è stata la rinascita legata alle Olimpiadi del 2006, nuove iniziative e progetti, ma la città ha vissuto come un trauma, una crisi di identità da cui fa fatica a riprendersi».
Il bene esiste, percorre strade inimmaginabili, anche nei momenti più difficili. Per paradosso, proprio quando i tempi sono più duri, ci ritroviamo di fronte a una maggiore generosità
Ernesto Olivero, fondatore del Sermig
Ci sono episodi, e ricordi, che testimoniano il legame di Torino con la sua storica azienda. «Penso al fiume di gente che omaggiò l’avvocato Gianni Agnelli dopo la sua morte. Ricordo la fila ordinata sul tetto del Lingotto per visitare la camera ardente. Nonostante tutto, quell’immagine fu la testimonianza della gratitudine sincera che tanti torinesi avevano per la famiglia Agnelli. Ricordo anche la marcia della pace del 2002. La Fiat in quel periodo versava in una crisi quasi irreversibile, che fu poi scongiurata dall’arrivo di Sergio Marchionne nel 2004. Come Sermig, decidemmo di dare un segnale: ritrovarci davanti a Mirafiori per portare la causa del lavoro e della crisi economica per le strade della città. Al nostro appello risposero in migliaia, soprattutto giovani. Fu una serata molto particolare».
L’Arsenale della Pace sin dalla sua fondazione ha deciso di tenere le porte aperte e di far entrare il mondo: «Per noi non esistono povertà vicine e lontane», spiega Olivero. «Questo è importante dirlo, perché automotive o no, ogni giorno intercettiamo una fragilità profonda. E questo avveniva anche quando la Fiat non aveva problemi. Di certo, almeno dalla crisi del 2007, ci siamo ritrovati ad aiutare molti più italiani di un tempo. Anche con aiuti alimentari che fino a qualche anno fa non erano necessari. Questo ci dice che la precarietà è aumentata e tanti insospettabili si ritrovano ai margini. C’è una Torino che fa davvero molto fatica, anche se spesso non si vede».
C’è chi parla della Torino bene. Io ho conosciuto piuttosto la Torino buona. E credo che la speranza passi da qui
Ernesto Olivero, fondatore del Sermig
La fiducia vince ancora di fronte all’incertezza? «Io amo usare un’espressione particolare. C’è chi parla della “Torino bene”. Io ho conosciuto piuttosto la “Torino buona”. E credo che la speranza passi da qui. Dico sempre che l’Arsenale della Pace chiuderebbe in tre giorni se la gente smettesse di aiutarci. Questo per dire che il bene esiste, percorre strade inimmaginabili, anche nei momenti più difficili. Per paradosso, proprio quando i tempi sono più duri, ci ritroviamo di fronte a una maggiore generosità. La gente è capace di restituire, prima di tutto quello che è, le proprie competenze e risorse, il proprio tempo. Questo non smette di commuovermi».
L’Arsenale della Pace è una casa per i giovani. Come vivono il presente? «C’è molta fragilità, fatica a immaginare un futuro, ma soprattutto a coltivare un sogno. Credo che la sfida vera che ci lanciano i giovani sia proprio questa: al di là di quello che faranno, hanno bisogno di riscoprire un senso, una motivazione, una scintilla che li spinge. Dobbiamo impegnarci prima di tutto per questo, il resto viene dopo».
Nella foto in apertura di Marco Alpozzi/LaPresse, la sede storica di Fca a Mirafiori, col nuovo marchio Stellantis, nel gennaio 2021, in occasione della quotazione di Borsa.
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