Testimonianze

Droga, da oltre dieci anni un morto di overdose al giorno: a qualcuno interessa?

Ci scrive un operatore di una comunità terapeutica del Centro Italia: «La criminalizzazione e la patologizzazione dei comportamenti giovanili, sembrano i due principi cardine su cui è raffazzonata tutta la politica meloniana sulle dipendenze. Ascoltateci: non è questa la strada»

di Angelo Palmieri

Le diverse comunità terapeutiche, avamposti di prossimità, rappresentano per molti contesti territoriali, la più immediata risposta possibile al problema delle dipendenze, in particolare da sostanze. Nel corso degli anni hanno lanciato un composto grido d’allarme al decisore politico e ai servizi pubblici del territorio per la fatica nel dover garantire i livelli minimi di assistenza e cura. Ancora profonde le disuguaglianze territoriali e dunque la necessità di intervenire su nuove formule organizzative di intervento. Si è creata, un’impresa del “fare –con e per- senza risparmiarsi” ovvero, se si preferisce, una fabbrica della speranza: una sorta di lavoro di comunità che contrariamente a quanto si pensi, non rimanda tanto ad una condivisione di valori comuni quanto ad un concetto cardinale della terapia ambientale, con la possibilità di potersi allontanare da ambienti caratterizzati da legami patogeni sì da poter sperimentare luoghi di appropriazione di nuovi significati per la propria vita. Pensiamo alla fatica di tanti terapeuti – terapeuta deriva dal greco therapéia “servizio, cura”, quindi vale “atto a servire, atto a curare” – che in un periodo di grande incertezza e di potenziale amplificazione di angosce e sofferenze psicologiche, come quello pandemico, hanno a ogni piè sospinto rassicurato, accompagnato, ricucito ogni “strappo emotivo” causato dalle restrizioni.

Dunque un patrimonio, quello delle comunità e dei centri terapeutici, che pur facendo scuola in tutta Europa e nel mondo, è colpevolmente rimosso da ogni interesse della politica.

Col ritorno alla normalità, dopo il periodo restrittivo, si corre il rischio di ricadere nel feticismo dei numeri e magari a quei vecchi refrain sulla distinzione tra droghe leggere e pesanti, peraltro ben pubblicizzati da spot perniciosi sottoscritti da autorevoli scrittori e analisti del fenomeno. Un sonno della ragione che rischia di procurare danni seri e irreversibili al Paese, soprattutto ai nostri giovani, destinati a diventare vittime sacrificali per eccellenza di una crisi socio-economica e culturale, i cui effetti esiziali non sono ancora del tutto dispiegati.

Che fare? Sarebbe auspicabile riprendere con tempi certi il dibattito sul progetto di revisione della normativa sulle droghe, la legge 309 del 90, frutto delle principali reti dei servizi del pubblico e del privato sociale. La proposta di revisione non potrebbe non fondarsi su alcuni principi inderogabili quali la centralità della persona in un processo di presa in carico globale, l’integrazione dei servizi, la libera scelta, la garanzia delle risorse da destinare alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione. Il ripristino di un fondo ad hoc sarebbe auspicabile, altresì, per favorire reali opportunità di inserimento socio-lavorativo. Una rivisitazione della legge quadro è necessitata dal fatto di dover considerare le dipendenze nel suo continuo dinamismo, sempre in debito con nuove sfide che riguardano le modalità di consumo, molto diverse dagli anni ottanta e novanta, e di comportamento.

L’auspicio è che si avvii una nuova azione di pensiero in grado di provocare un proficuo dibattito pubblico e politico rivolto alle prospettive future, ma ben lungi da biechi calcoli di partito.

Ma al momento pare che la direzione sia opposta.

Il governo Meloni sembra riproporre, dopo anni di “atarassia politica”, tesi o meglio posizioni che criminalizzano l’uso di droghe. È stato proposto un inasprimento, chiaramente in senso repressivo, della legge 309, il Testo unico sulla droga, ovverosia la modifica del comma 5 dell’art. 73 che riguarda i fatti di “lieve entità” riferiti al piccolo spaccio al minuto. Diventerebbe pressoché obbligato il percorso del carcere, già sperimentato in modo capestro e sciagurato con la legge Fini-Giovanardi, impedendo così l’affidamento in prova presso i servizi sociali. A seguire, in modo del tutto discrezionale, il passaggio agli arresti domiciliari e in comunità terapeutica.

Altra considerazione, non secondaria, è l’obbligatorietà della comunità terapeutica come alternativa alla detenzione carceraria su cui occorre aprire una riflessione senza precomprensioni ideologiche o di pensiero. È più di una suggestione, che le comunità corrano il rischio di trasformarsi in istituzioni totali, chiuse, strutture manicomiali, a scapito dell’individualizzazione del trattamento, necessaria per addivenire alla definizione di un percorso di cura.

La criminalizzazione e la patologizzazione dei comportamenti giovanili, sembrano i due principi cardine su cui è raffazzonata tutta la politica meloniana sulle dipendenze. Ad esempio, il tema sulla riduzione del danno, affrontato in Conferenza Nazionale sulle Dipendenze, convocata dopo dodici anni dall’ex ministro Fabiana Dadone, è stato fatto rimuovere dalla relazione sulle dipendenze presentata dal Governo, con la regia del sottosegretario Alfredo Mantovano.  È bene conoscere, che una risoluzione della Commission on Narcotic Drugs delle Nazioni Unite di Vienna, include la riduzione del danno fra le azioni utili per la gestione delle crisi di overdose e per prevenire le morti droga-correlate.

Ogni anno in Italia quasi una persona al giorno muore per overdose. La droga uccide, e uccide con drammatica frequenza. Secondo la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia del 2024, tra il 2013 e il 2022 sono stati registrati 3.418 decessi per overdose accertati (perché molte morti da infarto sono probabilmente riconducibili all’uso di sostanze).

Per concludere, anche se siamo in zona Cesarini, con un colpo di reni facciamo in tempo a recuperare il senso di un vero impegno per il bene delle nostre comunità e dei nostri figli a patto, che il tema ampio e complesso delle dipendenze, non assurga a battaglia soprattutto ideologica e di moralità. 

Foto di Ahmose Athena/Pexels

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.