Il caso
L’integrazione degli immigrati? A volte è solo questione di buonsenso
In una scuola primaria di Cagliari scoppia la polemica: una classe formata da italiani, un'altra da "stranieri" (nati però in Sardegna). Razzismo? Macché: la dirigente scolastica è venuta incontro alle esigenze familiari e alle richieste dei genitori. La Direzione regionale ha fatto mischiare le carte, si torna alle classi miste
L’integrazione degli immigrati? Materia complessa, certamente, ma a volte sono le singole persone a complicare tutto. Gli adulti, in genere. I bambini no, loro vanno dritti al sodo, soprattutto se sono stati educati al rispetto. E infatti sono proprio gli adulti ad aver creato una tempesta in un bicchiere d’acqua alla scuola Satta di Cagliari. Parliamo di uno degli istituti della primaria più importanti del capoluogo isolano. La Satta fa parte di un più ampio istituto comprensivo che accoglie 810 bambini e ragazzi, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado.
Il caso
In sintesi, è accaduto che la dirigente scolastica Elisabeth Piras Trombi Abibatu abbia accolto le richieste dei genitori e, per venire incontro alle esigenze familiari (chi voleva il tempo pieno e chi no, a chi piacevano alcune maestre mentre ad altri importava sino a un certo punto), ha creato due classi un po’ atipiche: nella prima A, 12 bambini su 16 erano stranieri; nella prima B, 13 su 15 erano italiani. Apriti cielo: alcuni docenti e genitori hanno polemizzato, dicendo che si stava creando una classe-ghetto. Le proteste sono rimbalzate alla redazione di un quotidiano locale e, quando è stata pubblicata la notizia, la Direzione regionale scolastica ha chiesto chiarimenti e inviato due ispettori. La vicenda, in verità, si è chiusa senza la necessità di un’indagine approfondita. Per diversi motivi.
La dirigente scolastica
Vanno precisati alcuni passaggi. Elisabeth Piras Trombi Abibatu ha nome e cognomi che tradiscono origini nigeriane e un presente (da svariati decenni) che parla di un’adozione e un passaporto italiano. Dunque, non può essere tacciata di essere razzista o insensibile a certe tematiche. È conosciuta e stimata da tanto tempo per la sua competenza e per i progetti inclusivi che porta avanti, soprattutto in questa scuola che sta a poche centinaia di metri dal quartiere della Marina, notoriamente abitato da tantissimi stranieri di prima, seconda e terza generazione, in prevalenza arrivati da Filippine, Pakistan, Bangladesh, Marocco e Cina. Da alcuni giorni si è trincerata nel silenzio, per non contribuire ad alimentare inutili polemiche a distanza. Ma alcuni dei suoi più stretti collaboratori ci hanno spiegato che l’intento principale della dirigente era quello di venire incontro alle esigenze delle famiglie. E, quando ha saputo che molti genitori erano pronti a portare altrove i loro figli, ha preferito trovare questa soluzione.
Accontentare tutti? Impossibile
Il colore della pelle, insomma, non ha di certo spinto la dottoressa Piras a scegliere questa via impervia. Inoltre, tutti questi bambini “stranieri” sono nati e cresciuti a Cagliari o comunque in Italia, parlano l’italiano esattamente quanto i loro coetanei sardi. Sono molto svegli e abituati al bilinguismo, a differenza di alcuni loro genitori che parlano la nostra lingua con difficoltà. Insomma, per Elisabeth Piras i bambini delle due classi sono da considerarsi italiani, anche se la legge al momento non lo prevede.
La svolta
Dopo la visita degli ispettori della Direzione regionale scolastica, il Collegio dei docenti si è espresso chiaramente: bisogna rimischiare le carte, creare classi miste (come peraltro alla Satta è sempre accaduto). E pazienza se qualche genitore non la prenderà bene. La dottoressa Piras ne ha preso atto, senza alcun problema. Proprio perché non c’era alcun preconcetto.
Il Consiglio d’istituto
I genitori delle due classi sono stati convocati ieri sera a scuola. «Un incontro vivace ma tutto sommato corretto», spiega Nicola Sulis, presidente del Consiglio d’istituto. «I genitori sono stati messi di fronte al fatto che il Collegio dei docenti si è dovuto uniformare alle disposizioni della Direzione regionale. Abbiamo spiegato come vengono applicati i criteri che lo stesso Consiglio approva. Alla fine, è stato raggiunto un accordo tra le uniche due mamme che opponevano resistenza. Ora c’è equilibrio tra italiani e stranieri, tra femmine e maschi. Con un po’ di buonsenso, siamo riusciti a trovare la quadra. Tengo a precisare che non ci sono stati atteggiamenti razzisti da parte dei genitori cagliaritani: le richieste erano legate esclusivamente alle esigenze familiari e agli orari scolastici».
Il parroco
Don Marco Lai, parroco della vicina chiesa di Sant’Eulalia (situata nel cuore del centro storico, alla Marina), conosce benissimo la situazione. Lui è anche il direttore della Caritas diocesana di Cagliari, da anni promuove progetti che aiutano tantissimo ad abbattere le barriere razziali e culturali. «Per l’esperienza sul campo di un’accoglienza dei migranti adulti e un accompagnamento dei migranti bambini, ragazzi e giovani, che facciamo in parrocchia ormai da più di 20 anni attraverso l’associazione Cosas, sono convinto che i bambini abbiano la possibilità di fare percorsi di inclusione sul versante culturale e civile. Conduciamo tantissime attività dal punto di vista scolastico, formativo, educativo, sociale e anche sportivo, per esempio con il basket, oltre al tradizionale oratorio che propone gite interculturali. L’obiettivo è quello di farli stare insieme ai bambini cagliaritani, conoscersi e socializzare, ma anche conoscere i luoghi e la storia della nostra isola. Il discorso delle classi quasi selettive di cui si parla in questi giorni a Cagliari, mi pare un eccesso perché non agevola l’integrazione. Ma so bene, perché conosco la dottoressa Piras, che a monte ci sono tante motivazioni e giustificazioni di varia natura. In generale, i ragazzi hanno strumenti per mettersi subito alla pari. Per quanto riguarda gli adulti, la faccenda è più complessa. L’immigrato adulto che arriva in Italia diventa etnicamente più nazionalista rispetto a coloro che rimangono nel loro Paese. Non mi meraviglia più di tanto perché accade anche a molti italiani. Parlo, in particolare, dei sardi: ovunque, in Italia e all’estero, ci sono circoli di emigrati sardi. Coltivano la nostalgia struggente della loro terra natia. Diventa naturale che alcuni profumi, colori, musiche li facciano stare bene. Magari in patria usavano i jeans, qui spesso indossano le tuniche tradizionali del loro Paese o i veli. Insomma, è una ragione in più per favorire l’incontro, la conoscenza, la reciproca contaminazione. Le opportunità sono tante, in un contesto di promiscuità. Ecco perché il percorso migliore è quello delle classi miste, al di là della volontà e delle resistenze che, più che della scuola, spesso sono delle famiglie. Pensiamo al bene dei bambini e dei ragazzi, visto che oltre tutto molti quartieri sono ormai multiculturali. Evitiamo di creare i ghetti, come è accaduto in molte grandi città: favorire la chiusura non porta mai a risultati positivi. Sono per un percorso in cui la potenzialità del piccolo, che ha un territorio sconfinato di fronte a sé da attraversare, possa avvenire nella conoscenza e nella contaminazione. Che avviene da tutte le parti. Noi, come parrocchia di Sant’Eulalia, siamo aperti alla collaborazione, come facciamo per esempio anche con la scuola Manno (la secondaria di primo grado collegata alla Satta, ndr). Per esempio, mettendo a disposizione il teatro parrocchiale oppure accogliendo gli alunni in occasione della manifestazione “Monumenti aperti”, quando bambini e ragazzi si trasformano in ciceroni per presentare siti museali e archeologici della città, e quindi anche i sotterranei di epoca romana della nostra chiesa».
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